Il tema della guerra ha da sempre interessato la poesia. Per certi versi, ciò può apparire paradossale, poiché nell’imaginarium collettivo l’ars poetica è percepita come il trait d’union tra la realtà concreta ed una dimensione metafisica ed ideale, una dimensione che, per sua stessa natura, esclude da sé la cruda realtà del sangue, delle spade, delle granate e che conduce a leggere il mondo non nella sua fenomenicità ma, appunto, secondo il suo valore archetipico. Eppure, dall’Ariosto ad Ungaretti, la poesia ha fatto propria la tematica della guerra e l’ha idealizzata, cercandone la causa essenziale, la radice più profonda. Colui che forse è meglio riuscito nell’intento di spiegare la natura ed il perché della guerra è Giuseppe Ungaretti, che, con poche parole, è riuscito a riassumerne magistralmente la drammaticità. Il testo di Marco Boietti si situa sulla scia dell’ermetismo ungarettiano: le poesie di 6.25, un conflitto dimenticato, sono brevi, scarne ed incisive proprio come i colpi di un’arma da fuoco, come l’esplosione di una granata.
Un elemento indubbiamente originale dell’opera è il tema attorno al quale si costruisce: la Guerra di Corea, un conflitto realmente “dimenticato” che, nel corso di tre anni – dal 1950 al 1953 - provocò quasi tre milioni di morti, segnando una delle fasi più acute e drammatiche della guerra fredda. Perché scegliere di parlare proprio di questa guerra, nella quale Boietti non è stato coinvolto in prima persona e che rimane lontana dal suo vissuto quotidiano tanto geograficamente quanto culturalmente? Forse il poeta ha voluto riaffermare con forza la necessità di non dimenticare, di non lasciar calare il sipario sugli eventi drammatici della storia presente e passata. L’imperativo è dunque ricordare. Ricordare di quanta violenza è capace l’uomo, di quanto impegno mette nel distruggere se stesso e il mondo. Il ricordo diventa così allo stesso tempo monito per non ripetere più gli errori del passato e speranza in un futuro migliore.
Protagonista dell’opera è il poeta stesso, che alterna alla descrizione delle battaglie il ricordo della guerra, trascinando il lettore in una danza tra passato e presente, tra il vissuto della memoria e la testimonianza diretta del conflitto. Ecco allora che, attraverso immagini vivide e suggestive metafore, Boietti indossa ora la veste del soldato che combatte sul campo, narrando la desolazione dei luoghi e la devastazione delle anime, ora i panni del veterano che si interroga sul perché della guerra e riflette sul vuoto interiore lasciatogli da questa esperienza.
Pur nella sua indubbia originalità, l’opera ripropone alcuni topoi della letteratura poetica sul tema bellico, come ad esempio la corrispondenza tra il soldato che rischia ogni minuto la propria vita e l’amata che ne attende fiduciosa il ritorno. L’amore “al tempo della guerra” acquista maggior valore, stagliandosi fulgido su uno sfondo dove non vi è che distruzione. Il messaggio che il poeta desidera veicolare consiste dunque nella speranza che l’amore vinca sulla devastazione della guerra e che l’incontro con l’Altro non determini più l’incrocio delle spade ma l’unione delle mani in un gesto di pace.
Tale messaggio – e, di conseguenza, l’intero significato dell’opera – è magistralmente riassunto in un verso: “Se questa guerra finirà/ scolpiremo nella pietra l’urlo della vita”. Nonostante 6.25, un conflitto dimenticato abbia come tema la guerra, è infatti la vita, con la sua diversità, coi suoi molteplici colori e profumi, ad essere la vera protagonista dell’opera. Un’eroina che per la maggior parte del tempo rimane nascosta, è vero, ma che alla fine verrà fuori dalle quinte per affermare a gran voce il proprio trionfo sulla morte.

Giulia Bianchi


Ci sono sensazioni che accompagnano ogni uomo nel corso della sua esistenza, emozioni che emergono talvolta a sprazzi nel tumultuoso corso della vita. Nascoste nelle viscere, sprofondate nelle interminabili pieghe dell’io sostano, si impigriscono, languono, ma poi escono allo scoperto poste di fronte a un’impasse, a una resa dei conti, all’incalzante richiesta di quello che ci circonda.
E in condizioni estreme l’uomo è alla resa, nessuna finzione è più permessa, nessuna indulgenza è accordata, pulsano gli istinti ancestrali e si stemperano i confini tra il bene e il male.
È la guerra. La tremenda e assurda guerra. Che ne è dell’uomo? Che ne è della “canna che pensa?” Ben poca cosa, sembrano suggerirci le poesie di Marco Boietti in 6.25 un conflitto dimenticato.
Lirica dopo lirica vediamo prendere forma le sfumature dell’animo umano e tra desolazione, distruzione e morte, il poeta sembra l’unico ancora in grado di trasmettere la dignità dell’animale uomo in una rassegna partecipe delle sue emozioni, della sua lotta per la vita.
Lo sfinimento di una «stanchezza che stagna» rende caro il calar della notte. All’alba si ritornerà a camminare «come formichine/ nelle crepe della terra» con un senso di inferiorità spietato e un senso di estraneità al «quadro di storia» che vorresti poter guardare «fuori/ dalla cornice».
E poi la paura, quella che non si riesce a far tacere e che «continua a farfugliare» scampati al fuoco del cecchino, quella che «non si stanca/ di essere un tormento», quella che ha forma umana e che si presenta con “felci piegate all’avanzare dei passi”.
«Ci vengono incontro le tenebre/ ma saranno sole?» è la domanda tremante, bisbigliata nel buio, quando «tutte le divise/ sono uguali» e se non giungerà l’attacco dell’“altro” giungeranno comunque gli incubi, «via vai continuo di allucinazioni» che difficilmente scompariranno dalla mente del reduce. E quanto poi sarà difficile “rifarsi gli occhi”, “far scendere il sipario sul suo smarrimento”.
Così, quando «ognuno mette se stesso/ sulla bilancia della vita» e quando «il piatto rimane fermo» giunge la preghiera a tal punto cristallina: «lasciateci vivi/ anche per poco,/ poi verremo uno ad uno/ quando ci chiamerete».
Ma nel cuore dell’uomo che rosicchia giorni al destino continua indomita ad albergare la speranza, alcune sere “vola bassa” quasi inconsapevole di poter riempire la vita, ma altre prende il sopravvento e allora sì, l’orrore svanirà, la terra desolata ricomincerà a dare vita ai fiori, la notte sarà rischiarata solo dai bagliori delle stelle e «I giornali del mondo leggeranno/ di quel piccolo soldato/ sbucato dall’ombra/ e nella luce cresciuto/ come un gigante».

Elena Pozzi