IL CANTO DELLA VITA



Era caldo giaciglio il ramo che scelse
mia madre per la mia nascita
e lì stava quasi invisibile
la forma perfetta dell’uovo, sintesi del respiro
della vita, gingillo fragile nel mattino di luce
che si incrina a chiamare il mondo,
straniero sulla terra che neppure distingue
l’essere prima dall’essere poi.
Amai subito quel nido e so che lo amerò
fino al tramonto dell’ultima stella insanguinata,
esisto nella vita, esilio dell’infinito cielo
che un usignolo con le piume non ancora cresciute
sente sopra di sé.
Mi giunge questo odore nella stagione della vita
dove i primi momenti sono eterni come sospiri
assetati d’aria ma cosa é l’aria?
Il fango aveva sposato l’argilla, le foglie si erano
fuse con i petali che avevano lasciato prematuri
i fiori, acqua e saliva erano il collante,
un piccolo spazio che annuncia
con il canto dell’universo la nascita su rami d’oro,
che follia, la vita è uscita dall’assenza e ha dato
certezza al corpo, la vita che voleva arrivare
nel cammino dei vivi quando il sole si alza lento,
i pesci ancora sognano malinconici nello stagno,
i salici accarezzano l’acqua
che silenzio triste o forse solo austero.




Lo sente il ranocchio che guarda in alto,
mi vede e gracida così forte da cadere
nella zattera di bambù,
benvenuto sulla terra, visione incosciente
della vita, chi può dirlo?
La discrezione di un suo simile preferisce
tacere sulla foglia galleggiante,
l’eternità si è fermata, il tempo, lo sento
mi sta ingannando, forse non esisto ancora.
Nuovi orizzonti si riflettono sotto il nido,
il mare d’erba luccica tra i rovi
dove i colori selvatici del canneto
hanno preso coraggio per uscire dall’acqua.
Acqua aria bolle luce vita
ma io dove sono? Forse il tempo è ancora lontano,
guardo quel mondo e arriva un senso di pace,
quanto è grande la mia piccolezza,
come è piccolo questo tremante mio essere
che fa di me la creatura nata con ali
ma senza piume.
Quante domande per l’ultimo arrivato,
sostengo a malapena l’ondata dei dubbi invisibili,
la paura mi copre con il mantello,
troverò un appiglio per trampolino o ci saranno
frontiere al mio volo?
La terra mi fa arrivare quel profumo di argilla
naturale e odorosa
mi porta nuovi rumori, anch’io potrei far arrivare
al cielo la mia felicità della mia sottile voce.







La natura non mi permette altro,
qualcuno la ascolterà, mi confondo
o sono già confuso in questi pensieri
e quello nuovo della fame non tarda,
solo parole che cercano consolazione
al timore che le note non siano cristalline,
che suono uscirà, verrò deriso prima
di cominciare quel canto d’oblio.
Sarò il ricordo sospeso nel tempo
di un usignolo figlio della vergogna,
compagno dello sterile silenzio
che sfiora i riflessi di quella luna
il grillo mi dice di chiamare l’anima
nascosta sotto le piume materne.
Sogno di essere aquilone portato in cielo
dalle onde del vento ora lontano.
Resta il nero dei grilli.
Venne la primavera per consegnarmi
l’ansia dell’incognito, vennero le piume
con l’aria invasa da nuovi profumi
e le api ubriache a contendersi il nettare,
l’avidità degli occhi cerca i colori delle cose che
il gelo aveva conservato bianche,
vedo le selve farsi verdi, le ninfee sciogliersi
i capelli, imparo il canto di altri uccelli,
suoni nuovi che imparo a conoscere
melodie della brezza che di albero in albero





mi regalano teneri fremiti.
Una carpa sfiora il velo d’acqua
il vecchio gambero sorride e riprende
il cammino, la vita rigurgita letizia,
mi unisco a quella compagnia di visioni
che vedo salire e scendere sul mondo
dove la libertà sgorga abbondante
come l’acqua.
Canta la vita tutta la sua follia
nella incandescenza di un raggio di sole
anche il cielo è blu regale e dirige la musica
che viene dai cori degli uccelli,
di questo spazio che il mondo vive
con pulsioni diverse, di stagione in stagione,
nelle sere di luglio nelle notti piovose
tra la timidezza delle stelle.
Oscillano i giorni con le notti, cresce il mio corpo
meno fragile,le piume sono più lunghe
e sento quel nido ormai stretto,
riconoscono gli usignoli e quelle ali d’argento
e anche loro sanno che in quel nido c’é uno di loro.
Il mare di silenzio del mattino viene infranto
dall’incanto della melodia, la metamorfosi
si è annunciata con quel primo cinguettio,
l’improvvisa curiosità varca i confini dello stagno
e gocce d’acqua si svegliano dal loro letto di foglie,
esco dal nido e rimango ad ascoltare il fondo
della campagna.







Il dono divino era arrivato aperto al ventaglio
delle nuove emozioni
quel nido parla la mia voce, sogno proibito
i suoni sottili fanno tremare la cartilagine
della trasparenza di seta che canta l’orgoglio
di essere sulla terra e di farvi suonare
dolci armonie, lo stagno gode ammirato
dalla fragilità invisibile di quella sostanza.
Anche i ranocchi stanno in silenzio
e il cielo prende altre strade.
Racconta il vecchio gambero che nella notte quieta
il silenzio portava la dolcezza del canto
aveva fatto cadere addormentata la luna che già sognava,
si svegliò la principessa d’argento pregandomi
di cantare ancora e incantare le stelle
per affondare la noia del tempo.
Poi chiuse gli occhi e riprese quel sogno
dopo aver incoronato la grazia del mio canto,
auspicio di miseria o felicità non lo capii
ma quelle parole risuonano continue,
cado addormentato su quel ramo rugoso
e nella notte sogno di me venuto sulla terra
per vedere ombre, visi di piante cresciute con me
quando il sole sferza tra i cieli i cavalli del calore
o nelle notti di gennaio
quando dagli occhi di mia madre scendevano lacrime di ghiaccio
o quando aprile bagnava i nostri mantelli.






Il canto infantile voleva rompere l’orgoglio
nella solitudine dell’universo con il mistero
della sofferenza nella gioia e nella cieca
tragedia nella luce e nella bellezza,
nell’isolamento degli assalti della memoria.
Quel giorno era venuto desiderato e temuto
avrei volato come gli angeli, la libertà
nelle ali nella scuola della brezza,
la terra mi aveva partorito, il cielo mi attendeva
stanco di aspettare un timido slancio,
prendo l’ora del vento che mi porta
nella sua ascesa incantata a cingere le nuvole
a fare equilibrismi con l’aria,
a fremere con le ali del mistero, divento acrobata
del volo e svanisco nella schiuma azzurra.
Navigo nel fiume di cielo alba e tramonto
riconosco il volo armonioso che porta lontano
e scopro i confini della terra che non ha più confini,
ho lasciato al nido la paura e volteggio nell’infinito
dove rinasco luce, scopro il paradiso dei cieli
che non vorrei abbandonare.
Che volatile infantile penso al disco d’oro
e non vedo la minaccia che si fa pericolo,
agile e veloce l’ombra si avvicina con la spada sguainata,
chiudo gli occhi e l’istinto mi sottrae
alla picchiata mortale,
salvami madre, la paura prega immobilizzata
chi può difendere questa vita?




Le stelle sono già povere di luce e non vedono
il bersaglio inascoltato mentre il cielo forse giocava
con ali meno superbe delle mie,
quelle ali erano così estese da coprire la luna che si congeda
precipitano in picchiata a ghermire la fragile preda
esposta ai suoi occhi d’aquila la sorte mi regala cascate di paura,
altro non sento nello spazio e nel tempo,
il terrore mi abbandona come inutile zavorra,
solo una sensazione di caldo sente il petto,
mi commuovono le gocce di sangue che colorano
l’azzurro, così percorrevo tra artigli possenti
le strade della morte.
Sentivo l’ultimo canto tra i boschi che mi salutavano
fino al nido ma non quello che conoscevo
ma in uno enorme si ferma il volo
vedo la luce della vita spegnersi, distinguo ancora
le gocce color rubino cadere sotto di me sulle pietre.
Freccia scoccata dell’arco dell’audacia a regalare
l’ultima melodia sussurrata in un cielo
che non è più cielo
ma canto della morte, pesante come piombo.