I COCCI DEL VASO


Dal cielo non scende il freddo delle gocce
né le raffiche improvvise di quella calda:semplicemente
non piove e i carri non si impantanano nel mezzo
della strada quando i contadini col mantello di pesante lana
dirigono i buoi stremati e ricordano la nostalgia
del corpo giovane che non avrebbe doveva subire
quel passaggio tra terra e sole e l’aria era migliore.
Il passato ora dorme e un’assurda confusione
trama la nuova vita dove le notti d’estate
vivono in stagioni che non cambiano nome,
l’afa greve accompagna le mosche che amano
senza temere l’odore del leone.
La noia non ferma l’eterno essere di quei volatili,
assidui esseri neri, noiosi come le loro vite,
che vivono là nel libero sonno, luce della notte,
dove subentra il giorno a portare l’arroganza del sole
e a indurire la ragnatela del greto del fiume,
tomba di acqua bruciata.
Sulla cima della collina rocce dai riflessi rossi
regalano colore e fedeltà e là mi rifugiavo
mentre contavo le carcasse degli animali morti di sete,
spiriti della caccia che la savana ospita generosa e,
talvolta, senza più suono.
Erano giorni che non conoscevano il pianto della bambina
che portava sulla testa otri di pelle dal pozzo
al fango della capanna e lo scheletro vivente della mucca
si faceva mungere mentre era già sull’uscio della morte.


Così su quel piccolo cuore soffiava il vento caldo
che accorcia il respiro e ogni giorno sa partorirne
uno uguale fino all’infinito,camminavi dove
altre leggere impronte ti avevano preceduto
e cantavano quei braccialetti alle caviglie
dimenticati dal mondo nell’oblio di un continente.
La vita non conosceva l’ingombro di altri pensieri
da pensare o da costruire, forse un giorno l’amore
credendoti sole di farfalle ti avrebbe cinto
con suo calore mentre le setole delle zebre
si sarebbero indurite per farsi pettine che alla fine
puoi solo gettare nell’arsura della sabbia
che tutto raccoglie, ossa legna corna ricurve scheletri.
La monotonia della noia non ha neppure
acqua per piangere, vita sconfitta per la mancata
nascita di un’acqua triste.
Sotto l’ombrello delle acacie vedevi la natura esplodere
luce e profumi di rari fiori che si alternavano
lasciando una scia di vitale sentire, il pensiero si perdeva
nella solitudine della terra che misurava
giorno per giorno la circonferenza dell’equatore.
Vita cresciuta a metà nel fiume che piange e rantola,
vita povera di desideri e ricca di aromi
che si intrecciano come capelli quando il sole
inizia la sua giornata di gloria,
il vento della pianura, aspro ed errante,
come l’orgoglio ferito del leone alza onde di polvere
che investono con il furore di una zampata
le capanne al villaggio.

Nessuno aveva visto quella caravella
portata dalle onde nere del mare
fare rotta su quella terra, lasciava nell’acqua
schiuma e sangue e già gli uccelli
portavano via sui dirupi la loro paura
nel disprezzo degli esseri che si avvicinavano,
ombre malvagie che chiamavano per nome il pianto
che non si fece aspettare con quel corteo
di ombre laceranti.
Lo stretto letto ospitava il tuo corpo di giovane ninfa
che cercava altri sogni nell’ora più calda del giorno.
Se ora pensi chiameresti la morte per tutto quello
che non hai avuto, esilio della vita, filo spinato
dell’anima che fa ruggine ma, prima di questo,
regala l’amarezza dell’illusione, pianticella che cresce
se puoi abbeverarla ma l’acqua era in un altro pianeta.
Tutto inutile in un mondo primitivo la cui prima legge
è quella di difendersi. La tua paura è uno spasmo glorioso
dove per molto o poco altri decidono per te.
E allora il pensiero torna a sognare il mare di pecore,
la pioggia che singhiozza tra i tuoi piedi bagnati dove
puoi specchiarti.
Ma non vedi nell’aria la violenza con il suo fronte di mulinelli di fumo,
il fragore delle fiamme che rende i villaggi rogo fatale,
gli occhi che uccidono quello che non possono depredare:
nuove giovani vite, futura merce di scambio ambita
per chi ha la pelle di altro colore e non riesce che a pensare al lucro
del servilismo per frantumare il vaso di terracotta da dove esce la libertà
diventata spettro nel giorno dei lamenti.

Uomini e donne, un giorno re e regine
della progenie vivono immobili il terrore dei mari
che in coperta il vento beveva ,catene alle caviglie
e ai polsi erano il doloroso oltraggio
per quegli incantatori beffardi che non indugiavano
a ricorrere alla vorace violenza dei bastoni
a tatuare con la brace la magrezza di quei polsi.
La tempesta issa la croce di sangue e di fame
davanti a quel brigantino carico di tenebrosa umanità
attraverso il grande mare che si accanisce
su quel fragile guscio in quel gioco incessante
di turbinii pieni d’acqua vorace.
La morte si è già presa i più deboli congedati
nel mare delle tenebre tra lamenti di corpi che conoscono
fame sete ferite non guarite labbra rotte incapaci
di parlare occhi che si nascondono nel cavo dei palmi,
la forza è fuggita insieme alla speranza.
Quei corpi rimasti pagano i mutamenti del mare
nella putrida stiva quella fanciulla beve con altri
il liquido dell’amarezza, più aspro della crudeltà,
qualcuno ha chiuso i lucchetti di quel piccolo mondo,
non si sentono neppure di tanto in tanto
gli uccelli che cantano il silenzio, si addensano le nebbie
che nascondono le infamie.
Ignora il pensiero quella verità che tutti gli uomini
sono uguali ospiti sulla terra ma il denaro non sa leggere.


Le illusioni che la giustizia ha partorito
si gettano negli abissi, invitanti esche
per predoni di mare.
Dov’ è la grotta delle conchiglie casa delle conchiglie
che cullano le fronde? Se la tua ombra innocente
mi segue ti indicherò la rotta delle nubi,
una tomba umida e buia divide nello spazio
la lucida ipocrisia degli uomini e il colore dei fiori
che cresce nella grotta dove gli uccelli
svelano la loro voce.
Ma nell’antro cresce anche la zizzania del mare,
orde di pensieri trafiggono come spade acuminate la sua mente
mentre il vascello continua a intrecciare
quella rotta di mare, nuova savana che non ha
il colore della terra ma è rossa del sangue di mille
altri viaggi, sciami di nere fiamme che perdono purezza
e lasciano la vita, delicato si alza un sottile canto
dedicato al sole, spirito tutelare, un altro alla boscaglia,
assenza di verde, ai riti che propiziano il risultato
della caccia, alle danze sotto la luna che ascoltava dolente.
Io non capisco tutte le parole ma nel delirio
di quelle larve umane, vittime dello scudiscio
e del bastone, io canto, o spirito vibrante, la fine
di questo male.Io passo piccola regina tra ombre
d’argento e la bocca intreccia uno stanco sorriso
per ogni melodia.


Non vi perderete con questi corsieri di uomini
noi veniamo dall’oscurità come la nostra pelle,
la candela si spegne e chi riesce ormeggia
alla sua terra ma contro il sogno nulla può
la rabbia dei bianchi, idoli con la pelle di pannocchia,
la vostra dignità è quella di stelle che prendono fuoco,
il sangue riempie il boccale della vostra vigliaccheria,
la coscienza è gelata come lastre d’ardesia.
Nella notte che brulica di vergogna abbracciate
l’albero maestro, nel profondo vi riconoscerete
ispiratori d’infamie partecipare al banchetto dei demoni.
Salve di cannone annunciano la vista del vascello,
arriva il corpo di Cristo, ai lamenti silenziosi è dato
il benvenuto dal porto guarnito di ornamenti.
Le passerelle attendono la discesa di cuori umani
già sepolti tra la curiosità che fa mille domande,
il ghigno dei soldati, i panciotti delle autorità
dei prelati e dei commercianti che fa volare il cappello
al cielo.
Satana, gonfio d’orgoglio,li afferra tutti, non sono lontane
le carrette trainate dai muli che attendono pazienti
la processione degli spettri, deserti incoronati,
scendono uno dietro l’altro, catena dopo catena,
chi aspettava si culla nel silenzio nel tempo
che si è addormentato.
Giovani i più, lordi di escrementi,cadaveri verticali
che ancora respirano, le piaghe di lontana gioventù,
zoppe creature, esseri miserabili.


Seminudi come l’anima, dirigono il cupo silenzio
nello spazio dove qualcuno deciderà per loro,
se una famiglia o peggio una piantagione
come chi un giorno non lontano li precedette.
Una divisa è comandato alla conta: solo un terzo
risponde.
Lei non è tra quelli, non appartiene più alla terra,
è scappata una notte con il soffio degli angeli,
ora la luce la riempie tutta di sé. Ha lasciato
questa vita disadorna di ricchezza come il suo tugurio,
rinunciando a quella feroce mutilazione
che si chiama annullamento, dignità bollata,
corpo che si fa tenda per piegarsi dove viene ordinato.
E’ entrata nella cerchia degli spiriti eletti, lasciando
quel corpo gonfio di lividi, straziato dalle frustate.
Io vengo da una terra di pace, sono nata sulle sponde
di un fiume che porta nella stagione delle piogge
le carcasse degli animali morti per sete non bruciati
per mano dell’uomo bianco. Ricordo il mio delirio
radioso nella luce della notte, puro vapore che sale al cielo
con il corteo di altri esseri purificati dal fuoco
della città degli uomini.
Quando una farfalla mi diede un bacio, capii.
Mi accoglie ora questo giardino colmo di fiori dove ascolto
il miracoloso rigoglio delle piante, miracolo perpetuo.
Passeggio tra le ombre del sole perché il caldo
mi ricorda una terra dorata dove mi vedo giocare
con altre bambine tra brezze di profumi, estasi di fiori
e vedo un’altra vita, sogno eterno, venirmi incontro.