PREFAZIONE

Con questo denso lavoro Hypothesis Marco Boietti lancia a se stesso e al lettore la sfida della forma lunga della poesia, vale a dire il poema, una costruzione di versi su versi che richiede buoni polmoni e che oggi si rivela molto presente nella poesia contemporanea, sia in Italia sia altrove.
Ci troviamo infatti nel pieno di un riaffiorare prepotente della forma poematica, come dimostra la quantità di lavori, convegni, rassegne, numeri monografici di riviste dedicati al poemetto che hanno visto la luce in questi ultimi anni; ancor di più e meglio, poi, lo dimostra la messe di poemetti pubblicati, molti dei quali di ottimo livello.
Hypothesis si inserisce a pieno merito in questa fioritura, apportandovi un profumo suo proprio che sa di avventurosi tragitti della mente e dello spirito.
Di questo profumo, che è poi un senso forte del vivere, e che si mantiene costante per tutta la lunghezza del testo, in Hypothesis è già l'esergo a offrire una perfetta sintesi: ...il tramonto chiude gli occhi/ per accendere le stelle della vita,/ svegliati ora, la sera ti chiama,/ e guarda il mondo e regala/ la perfezione della luce...
Tanto sono centrati questi cinque versi di introduzione al lavoro, che potrebbero addirittura dare l'impressione di essere uno spoiler, vale a dire la mossa maldestra di un autore o di un commentatore che, introducendo il lettore alla scena, gli svela in modo inopportuno “come andrà a finire”.
In questo caso, però, siamo di fronte a un autore che sa il suo mestiere: non si tratta affatto di un'ingenuità che rovina la trama, perché in Hypothesis di Boietti il lungo viaggio possiede una forte natura simbolica e spirituale, e pertanto non può che sfociare in un traguardo iniziatico pre-scritto, in un destino di luce che fin dall'inizio fiancheggia nascosto il cammino dei cercatori.
Il protagonista, un io che passa con grande efficacia dalla prima persona singolare alla prima persona plurale - un “noi” epico non molto frequente nella poesia contemporanea, e proprio per questo ancor più degno di nota - traccia in parole gli accadimenti e le visioni di un grande viaggio totalizzante, che compie insieme a un gruppo non definito di uomini soli, incerti, in un continuo, estenuante corpo a corpo di sopravvivenza a tu per tu con la natura, sempre avanti, avanti e ancora avanti, non si sa bene verso che cosa e per quale motivo.
Le evocazioni oggettuali risuoneranno a seconda del paesaggio interiore di chi leggerà. Personalmente, mi è sorto spontaneo visualizzarli come soldati di un esercito disperso lasciati a se stessi, un manipolo di uomini che “hanno passato il ponte dell'ignoto”, “un’umanità in rotta che si perde in se stessa come il narciso che non ha segreti sulla scena”.
Così parla l'io lirico del drappello del quale fa parte. Il prologo enuncia quali saranno le linee di fondo di questo andare: innanzitutto un affidarsi alla sorte, un abbandonarsi agli eventi nelle mani di un'originaria e profonda fede in se stessi. Nulla è certo nella vita, se non la vita stessa, con il suo dinamismo incessante: e anche se questa consapevolezza non diminuisce i pericoli, le difficoltà e le paure, essere vivi, che corrisponde alla libertà, è tutto quel che c'è e può riservare bellezze infinite.
Anche la speranza di un re-incontro con quanto si è perduto. Lo si può definire senza paura di sbagliare un poema della perdita e del ritrovamento.
In questa prospettiva, emergono caratteri forti di compattezza e coesione, in quanto la dialettica di perdita-ricerca-ritrovamento, che si svolge tra le due polarità di cupo scoraggiamento e di animata ispirazione, agisce sia sulla macrostruttura del poema, sia, volta per volta, nei singoli episodi.
Quanto detto non può che creare il terreno per una tematizzazione dell'attesa.
E', il lavoro dell'attendere, un filo conduttore che non si perde mai, inserito con forza nel prologo e teso per tutto il poema, oscillante tra illusione e concretezza, tra intimismo e tracce materiali. Lascio sulla terra tracce per lei,/ lei che tirerà la tenda della camera inesorabile:/ verrà la notte, verrai, vero?
L'io lirico combatte, sogna, si addormenta, si abbandona, cede, trova e perde speranza, ricorda, prefigura, esperisce infinità di stupore. Il corpo a corpo - solitario o gruppale nei primi due grandi canti di cui si compone il libro, unito nel sublime di una coppia d'amore nel terzo e ultimo – del cammino di Boietti si svolge totalmente nella natura.
Si tratta di una Natura (il maiuscolo è voluto) non solo terrestre e terrena, ma spesso cosmica e trascendente, che si manifesta tutta, dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande, in un discorso massimalistico, di una poesia che “tira dentro tutto” così come la coscienza.
Lo scambio tra soggetto e oggetto diventa pertanto inevitabile, e non sono infrequenti impennate verso una sorta di cosmogonia di sé, dove il poeta esprime il sentimento della propria origine in termini cosmici, planetari, molto potenti.
Eccone un esempio: Mi sento pianeta di tempeste di rabbia,/ sabbie amorfe, rose di quarzi, argento di mercurio./ La radioattività di uranio mi abbandona/ mi getta fuori dal quadro della galassia,/ apro gli occhi e tocco il mondo, la prima volta.
Quando sembra non esservi più nulla, rimane il titanismo, la coscienza eroica, l'andare avanti ugualmente. Anche questa, insieme al tema della ricerca, appare come una chiave di lettura obbligata per Le strade. E qui il protagonista lascia volentieri, qua e là, il posto al testimone: A chi è rimasto, vorrei scrivere degli ostacoli/ della memoria, dei mari attraversati dalla sete,/ e le marce notturne, infestate dai demoni del male,/ l’eterno vagare senza meta,/ il fuoco nella notte acceso con i raggi della luna/ e il ventaglio della speranza sul precipizio dell’ignoto.
Questo, sia pur sporadico, rivolgersi ad altri, la necessità di raccontare il tragitto, sembra sottintendere che il viaggio è obbligatorio, che ogni uomo deve fare la propria traversata. Balugina allora, nelle parole del poeta, il calore di un conforto, una mano tesa sull'ignoto.
E alla fine, trionfano due ricompense: quella aperta del vedere, quando “l’anima scende dalle scale per godere lo spettacolo”, e quella intima dell'eros, quando un corpo si scioglie nell'altro in linfa e piacere. Sia chiaro che nessun dubbio è svanito, la natura e il destino non si sono sciolti una volta per tutte, non è sorta la nuova Gerusalemme: ma l'individuo ha compiuto il suo Cammino, e, quel che più conta in questo contesto, l'ha restituito con vivido lirismo, in una lingua tanto semplice quanto espressiva, che mira ad andare all'osso dell'evocazione.
La chiusura è da applausi a scena aperta, nella figura quasi zen del gatto che orina sulla terra riarsa e se ne va, affermando l'acido della vita, la vitalità di ogni azione, la voglia senza fine di esistere.


Anna Lamberti-Bocconi