Da un articolo di Paola Mastrocola.

L’altro giorno sono capitata in un bel negozio di oggetti e stoffe d’arredamento.
Vedo in vendita su un tavolino, un paralume che si chiama “lampada di Rimbaud”. La base è di ceramica e porta dipinto il volto di Rimbaud. Più esattamente riproduce quella foto storica che siamo abituati a vedere su libri, antologie, e che ha finito con il rappresentare l’immagine mentale collettiva che abbiamo di questo grandissimo poeta dell’ottocento, morto all’età di 37 anni.
Cerco di descrivere la foto, perché la riportiate alla memoria: un ragazzo magro dall’aspetto fiero, con i capelli corti, la fronte alta, il ciuffo che butta verso destra come se un vento che nessuno vede lo investisse. Un bravo ragazzo, non fossero quegli occhi, trasparenti, ribelli, arrabbiati.
Intanto, penso, è bello che una lampada d’arredamento riproduca il volto di Rimbaud.
Una giovane donna elegante, sui trent’anni, me la mostra da vicino. Credo sia la proprietaria del negozio. E’ bella, seria, taciturna. Decido di parlare di Rimbaud. Eh, oggi, chi lo legge più, il povero Rimbaud...Ed ecco che la donna mi sorride: e già, dice, peccato...
Finiamo col parlar di poesia. Vedi la potenza di una lampada d’arredamento! dico tra me e me. Mi dice che nessuno legge più la poesia, anche perché non ce ne sono più di poeti bravi. ...Abbiamo ancora l’idea che debba avere una vita segnata: droga, malattia, sofferenza, lutti...Ci piace che non segua il modello più comune, che scappi dagli schemi, che sia ...eccentrico.
Sappiamo bene che non è così. Che può non essere così. Abbiamo avuto grandissimi poeti che facevano un lavoro impiegatizio (taluni più fortunati, altri meno) e ci hanno insegnato che spesso proprio una vita esteriormente grigia nasconde il fuoco del pensiero, il turbine delle parole. Pensiamo a Montale, tanto per dirne uno. O a Pascoli. O a Kafka. Vite dove forse proprio la normale quotidianità del vivere fa da maschera, e serve a proteggere la vera e dirompente identità. Come Superman ci insegna: il mito del supereroe che di giorno è un uomo comune, lavora in ufficio, è timido, introverso. E’ un
mito che mi ha sempre attratto moltissimo, l’idea che sotto il doppiopetto grigio dell’impiegato ci sia la tuta rossa e blu dell’uomo capace di volare.
A ben pensarci, siamo sempre all’albatros di Baudelaire, il grande magnifico uccello marino re del cielo quando vola, e povero mentecatto deriso da tutti
i marinai, quando zampetta goffamente sulla tolda. Il sublime e il quotidiano, la vita comune e l’eccezionalità del genio.
Eppure Rimbaud ci affascina ...è il poeta a tutto tondo, l’artista dannato...mi viene in mente una leggera tristezza. Noi, quelli della mia generazione, ci abbiamo ancora creduto a quell’idea, alla possibilità di una vita antiborghese che si fondi sull’arte, che si rintani in umide soffitte, che non si curi di aver fame, che sfidi il grigiume dei luoghi comuni. Ma oggi?
Mi piacerebbe che tornassimo a credere nella bellezza e nell’inutile (l’utilità dell’inutilità?), magari in modi meno eclatanti, magari senza essere Baudelaire o Rimbaud, senza svegliere paradisi artificiali o il commercio dei fucili in Africa. Più dimessi, più nascosti...Ma parimenti ribelli, agguerriti contro il superpotere del buonismo e del politicamente corretto.
....Ma mi chiedo quale possibile fuga sia ancora possibile: quale ipotesi di ribellione oggi si apra ai giovani...