Alessandro Magno voleva sempre di più - scrive Plutarco - e a chi gli chiedesse perché mai non gareggiasse a Olimpia rispondeva che l’avrebbe fatto solo se avesse avuto contro un re. Era ambizioso Alessandro, di un’ambizione senza limiti, al punto di dolersi del padre. Il Macedone sa bene cosa vuole, fin da giovane e la sua ambizione (la pretesa di essere addirittura Dio) lo porta a modificare il corso degli eventi e a far riscrivere la Storia.
E Alessandro non è stato il solo. L’ambizione - insieme a cultura, visione e capacità di controllare le emozioni - fece di Lincoln uno dei più grandi, forse il più grande presidente degli Stati Uniti. Abraham nasce in una casa di gente povera ma vuole assolutamente diventare qualcuno e fare qualcosa di grande per il suo Paese, non a qualunque costo ma meritandosi la stima di chi gli sta intorno e poi del suo popolo. Ci è riuscito, eccome.
Buona o dunque cattiva l’ambizione? Dipende. A Riccardo III d’Inghilterra “il mio regno per un cavallo” l’ambizione fu fatale: corrotto e malvagio, viene abbandonato un pò alla volta da quasi tutti e muore di morte violenta: è Shakespeare a renderlo immortale. E gli esempi potrebbero proseguire con l’illustre Pasteur, il curioso Hume.
In sintesi estrema la loro esistenza fu quella di trasformare una piccola idea in un grande progetto. A questo elenco di grandi ambiziosi potremmo aggiungere l’allora giovane chirurgo del Sud Africa Chris Barnard, bravo sì, ma anche ambiziosissimo.
Da bambino Willem Kolff voleva dirigere uno zoo, ma in Olanda ce ne erano soltanto tre. Così - diceva suo padre - le possibilità di dirigerne uno sono davvero pochissime.
Era un dottore, ma Willy il dottore non lo voleva fare:”Si vedono morire troppe persone” diceva.
Nel maggio del 1940 le truppe di Hitler invasero l’Olanda e i nazisti occuparono il suo ospedale a Groningen. Pur di non collaborare, Kolff se ne va via e finisce a Kampen.
Il rene artificiale Kolff l’ha inventato lì, in un piccolo ospedale di campagna. Di fronte all’agonia di un uomo che moriva di reni, pensò che se si fosse riuscito a togliere dal sangue le sostanze tossiche che si accumulano quando questi smettono di funzionare, gli ammalati si sarebbero potuti salvare. Come membrana provò di tutto: il budello delle salsicce soprattutto e persino i barattoli delle spremute d’arancia. Ci mise sangue mescolato con urea, una molecola che chi è malato di reni non riesce a eliminare. Poi immerse il budello della salsiccia in un bagno salato.
In pochi minuti l’urea passò dal sangue all’acqua.
L’idea era giusta. Dalle salsicce si passò alle membrane di cellophane, fino alla creazione di una macchina estremamente primitiva, a rullo come le prime lavatrici.
Cominciò ad attaccare a questa macchina i primi pazienti. Nessuna approvazione e nessun comitato etico. Kolff era solo con la sua coscienza e con i suoi ammalati.
All’ospedale di Kampen ne curò quindici, ne morirono quattordici.
Kolff nel 1950 lasciò l’Olanda per gli Stati Uniti. Le macchine da dialisi diventarono sempre più sofisticate, tra lo scetticismo dei grandi fisiologi renali, che dicevano tra loro e ai congressi: ”Mai nessuna macchina sarà capace si sostituire le funzioni di un organo complesso come il rene”. Si sbagliavano, oggi più di due milioni di persone al mondo vivono (qualcuno anche per trenta e persino quaranta anni) grazie alla macchina che lava il sangue e tutto per via del Dottor Kolff, della sua intuizione, della sua voglia di riuscire a dispetto di tutti, della sua ambizione.