Generalmente ogni fine d’anno corrisponde alla formulazione di buoni propositi di migliori intenzioni di nuovi programmi per l’anno che viene così che questo possa essere più creativo, fruttuoso, vissuto in modo più adeguato. Tutta una serie di intendimenti certamente lodevoli, non diciamo di no, ma che rimangono solo in parte realizzati. Il naturale fluire del tempo penserà ad assorbire e a portar via con sé nei mesi successivi le energie superstiti.
Riuscire, invece, a vivere in maniera costante e addirittura quotidiana quello che si desidera, e di cui non si può fare a meno, è vivere in un certo senso un’atmosfera privilegiata. E tanto più questa è sentita, più facilità avrà a contaminare il mondo. E la poesia è fatta anche di questo aspetto trasversale silenzioso invisibile che ne fa una lingua speciale che scarta rispetto alla lingua di tutti i giorni per costituirne quasi un’alternativa.
Questo vale, in realtà, per tutta la letteratura, ma nella poesia il fenomeno è più evidente e ineludibile, tanto da costituirne quasi la premessa. Perfino nell’opinione comune la “vocazione” sembra più vera per i poeti che per i romanzieri; il romanziere tira la carretta, sgobba servilmente per molte ora al giorno, riscatta la propria schiavitù con il lavorio delle parole; il poeta ha un rapporto magico e verticale con la parola che gli arriva da su o da giù. Il romanziere scrive quando vuole, il poeta quando può, se la poesia non viene non viene.
Ci sono lunghi silenzi, giorni infecondi che non si possono riempire con la volontà (certo un grande aiuto viene dalla fantasia) e con l’incitamento alla produzione. I poeti sono piante delicate, dalla fioritura preziosa perché rara e aleatoria. Certo la tecnica di scrittura si è evoluta se è vero che fino a un secolo fa, la lingua poetica comportava tecniche più rigide, la c.d. griglia metrica; la poesia contemporanea ne fa a meno anche se talvolta l’andare a capo diventa quasi una responsabilità.
Il tratto davvero universale, che attraversa tempi e paesi sotto la varietà delle regole esteriori, è che il poeta, pur essendo un re, non è sempre padrone di quello che dice. I poeti lo hanno sempre intuito di “essere parlati”. Coleridge dichiarava di aver derivato da Kubla Khan una visione in sogno, la Rosselli sosteneva che dopo una notte di creazione conservava solo i versi che non capiva, Dante si vantava di restare il più vicino possibile alle parole di un “dittatore”, cioè di un essere superiore che gli dettava dentro, per qualcun altro, l’inconscio o il mito prendono l’iniziativa e se ne vanno dove vogliono.
Sia pure così. Scrivere versi è anche sinonimo di rivolta, di anelito alla libertà.
Quello che sarebbe auspicabile, alle soglie del nuovo anno, è che sempre più persone possano chiedersi: che cosa perdiamo se perdiamo la poesia?