In poesia, come in ogni arte, l’atto creativo nasce dall’esigenza
di esternare ciò che è racchiuso intimamente. La chiave
interpretativa dell’io sono i simboli, ma non gli stessi del
linguaggio, che scaturiscono da una necessità comunicativa. La
simbologia nell’arte è quella insita nella natura antropologica
dell’uomo. L’arte si sprigiona dall’affermazione dell’io nella
realtà: un tentativo di raffigurare l’oggetto attraverso la mano
imperfetta di colui che attua questo processo. Un passaggio da
oggettivo a soggettivo che ci guida verso il concetto stesso del
reale; una ricerca dell’essenza che, nella sua astrazione, ci
mostra il nucleo più intimo dell’oggetto: il simbolo.
Mito, visioni oniriche, religione, esistenza, amore, ideali, arte…
Questi i temi toccati in quest’antologia, passando per le
suggestive dicotomie vita/morte, sogno/realtà, buio/luce,
ragione/istinto. Il poeta è colui che affronta il viaggio verso il
centro di se stesso, con un’analisi interiore volta a rivelare gli
universali umani, ciò che ci accomuna in quanto uomini, gli
archetipi dell’essere. La realtà sussurra una risposta che solo
alla fine scopriamo di aver sempre avuto dentro di noi.
Sin dai primi versi si evidenzia il parallelo tra la natura e
l’arte, il reale e il fittizio, l’oggetto e la sua
rappresentazione. Immagini di quiete, rievocazioni del quotidiano,
dell’infanzia… Anche con lo stile della poesia, atipico per lo
scopo, Marco Boietti racconta una storia, un percorso affascinante
alla scoperta del sé. Attraverso la lente sfocata della vita umana,
la natura spesso ci appare asservire ai nostri fini, ma essa è
oltre noi e ci sopravvivrà, nell’incessante trasformarsi del reale.
Noi corriamo, ma siamo immobili rispetto al ciclo infinito di vite
e di morti che le stelle osservano.
Immagine ricorrente è quella della luce, assurta a metafora di una
visione nitida, di un sentimento di dolorosa consapevolezza che si
declina attraverso sfumature emotive e tratti discordi. Resta
l’immutabile candore delle piume del cigno che rifugge il tempo e
ne solca i limiti, disegnando sentieri nel firmamento.
Qual è, in ultima analisi, la bellezza di noi mortali, se non
l’illusione dell’immortalità stessa? L’amore che tende
all’infinito, la ricerca di quell’ideale terreno che ci proietta
nell’eternità. La stella più luminosa del cielo, che su di noi
riflette la sua luce, abbagliandoci talvolta per lo splendore, ma
facendoci assaporare la meraviglia dell’eterno, sfuggente e
infinito allo stesso tempo.
Valentina Ferrario
Una trama classica e, nel contempo, una resa
simbolista, spiazzante, polimorfa. Un'apparenza d'idillio arcaico e
tracce di Böcklin. Il desiderio della luce, quella luce che può
tuttavia accecare. Il biancore della vita e quello, sullo sfondo,
del lutto che attende. L'altrove che trapela. Una meditazione casta
e, insieme, dura sulle cose, sull'esistere. Il vuoto, il suo
orrore, e la voglia di colmarlo. Gehenna ed Eden. Il liquido nero
dell'oblio e, di contro, le salvifiche acque.
Cigni di giada è l'ultima raccolta poetica di Marco Boietti. Non è
un libro facile: non tragga in inganno la brevità delle poesie. Non
è un libro facile, ma colpisce come pochi altri: sono infiniti
sedimenti, suggestioni, “lacrime di pietra”, parole simili a gocce
avare ma pregne, come quelle di un accattone assetato che beve
nella torbida pozza. La potenza, talora dolce talora aspra, del
mistero – come dimenticare una simile immagine? “Bianche feluche/
salgono il fiume/ le ragazze in piedi/ col seno nudo/ guardano in
silenzio”. Una sorta di atemporalità, che non riesce a ogni modo a
sconfiggere il senso (o non senso?) degli individuali destini,
aleggia e s'espande: tormento e consolazione. Il poeta come un
cigno, figura animale sovente richiamata (non solo nel titolo), un
avatar: nello stagno silenzioso, una solitudine (altera?
dolorosa...) di “orgogliosa marginalità”. Ma sono anche rapide
accensioni... “Giocano i bambini/ con l'acqua che evapora/ soffuse
armonie dissetano/ rose di Turchia./ Il sagittario cavalca/ le
praterie del cielo/ e l'ippocampo si pavoneggia/ tra le alghe./ La
polvere del firmamento/ scende/ a baciare i frutti/ e io mi
abbandono”. Un accenno esotico – ah le “rose di Turchia”... – e gli
occhi al vasto, atarassico e pur consolatorio cosmo – “Il
sagittario cavalca/ le praterie del cielo”. Poi una levità
improvvisa... “Va alla deriva/ un panama sull'acqua,/
galleggiando.// La sera scopre/ quella strana barca/ di fibre
intrecciate/ capovolte all'insù.// La vede anche/ la stella
cadente/ leggera/ nel vagabondare/ senza meta”... deliziosi versi e
delicati, ma nel contempo ossimorici in quanto in loro celano
l'insidia terribile del viaggio: quel panama in balia delle
correnti come la debole nave di Ulisse, esposta al dio del caso, a
una furia imprevista e annichilente. Ma quanto è soave quella
stella cadente, provvisorio e fulmineo testimone di un evento lieve
e drammatico. E che ci dice il panama di colui che l'ha perduto? Un
gesto giocoso o imprevidente l'ha gettato nel ventre del fiume, nei
lenti abissi, o qualcuno è affondato fra i gorghi? Un enigma. Il
dilemma che travaglia da sempre e per sempre gli esseri
umani.
E che dire dell'amore? “Lo stoppino/ è troppo corto/ e la notte
luminosa/ aiuta il desiderio/ del buio che arde/ quella notte in
cui/ io fui fiore e tu fiamma/ prima di divenire/ cenere di
petali”. Il fuoco che dona calore e luce; il fuoco che distrugge.
Ascesa e purificazione/Annientamento... “cenere di petali”... ma,
infine, ascesi e catarsi. Il fuoco della lava lascia pietra e
cenere; la cenere fertilizza. Fantasma e presenza è l'amore, felice
spaesamento, allegra rovina, mezzo e meta. Prosegue il viaggio. La
vita del resto è un itinerario a tappe: anche strane, non volute,
involute, stasi repentine e improvvide, e nuove partenze, realtà e
surrealtà, istanti di sogno... “Il mio vicino di letto/ non parla
la mia lingua,/ questa notte/ nel sonno diceva/ parole
sconosciute./ Ho sognato di svegliarmi/ ma nessuno capiva”. È un
crescendo lirico man mano che si scorrono pagine e poesie... La
consapevolezza si fa squassante... “È sera/ la disperazione
dell'universo/ strappa il calendario”... “Nel confine esploro/ con
il torbido telescopio/ il rito del tempo/ dove attendo l'oblio.//
Il gioco infinito si nutre/ di pane e sale”... Coscienza
dell'ineluttabile scorrere e sereno smarrimento... “Il gong di
cristalli / sull'uscio/ invita a entrare/ nella casa vuota./
Neppure la polvere/ sullo scrittoio/ sa riconoscerti// Eppure lei/
è rimasta/ ad aspettarti”... La polvere del tempo, e noi stessi
siamo danza del pulviscolo che il raggio di luce di un mattino
estivo pone in evidenza nella penombra, minuti e sfrenati granelli,
turbinosi come gli infiniti mondi dell'universo, pronti a esplodere
e implodere. Identità disperse, frammenti dei molteplici io, gocce
di sudore che scendono sulle tempie malate di febbre, in una stanza
“crocevia dei pensieri/ dei ricordi di luce, fragili ossessioni.//
Tirate le tende, lasciatemi ascoltare/ i suoni della fontana”. E
quanto è commovente il suono, primo e ultimo, di questa fontana:
non vista, ma udita nel più profondo dell'anima, soave suono
rimbalzante, anelito, invocazione, risposta, paradiso.
Alberto Figliolia