PREFAZIONE



Con questa sceneggiatura, la seconda dopo La coda del pavone, il poeta Marco Boietti accende il riflettore sull’apparente tranquillità di una comune famigliola americana che quotidianamente si ritrova a tavola a colazione, pranzo e cena; e lo fa con una certa abilità descrittiva, abbandonando il suo consueto linguaggio poetico – di cui tuttavia permangono echi nei mai scontati accostamenti lessicali – per lasciare spazio ad una prosa creativa, strumento più efficace nella resa dei personaggi.
Piuttosto laconici, chiusi nei loro ruoli precostituiti, i protagonisti di questo Gioco delle parole celano in realtà segreti e amarezze che lo scambio di brevi frasi sembra risvegliare nel loro intimo.
Come in una sorta di fermo immagine la bocca tace e l’eloquio lascia il posto ai pensieri, a quello che si vorrebbe dire ma non se ne ha il coraggio e a quello che si tenta di nascondere soggiogati dal conformismo e dall’ossessione mai palesata del “quieto vivere”.
Un riflettore, dunque, puntato su una recita corale dove a farla da padrona è la noia di una vita che ha perso ogni attrattiva lasciando il posto ad un arido disincanto: «In giornate come questa andavamo in campagna a raccogliere le more, ti ricordi Eleanor?» dice il capofamiglia alla moglie «come potrei dimenticarlo?» risponde lei “il colore delle more si confondeva con il sangue che usciva dai graffi che i cespugli mi lasciavano…” il non detto.
Una vita che non offre grandi prospettive e che induce il figlio minore Kristopher ad arruolarsi volontario nelle truppe in partenza per l’Europa e tantomeno le offre a chi resta, come la figlia Stacy coinvolta in una storia sentimentale “proibita” che percepisce senza sbocchi, se non vissuta nella menzogna e nel silenzio.
Eppure, leggendo il libro, proprio come in un gioco strategico le cui mosse rimangono celate fino all’esito finale, tutto sembra procedere sui binari rassicuranti della convivialità familiare.
Gli Stati Uniti stanno entrando in guerra, ma nulla sembra scalfire la patina di perbenismo presente nella casa, poi ecco arrivare un sogno ricco di simboli e vaticini.
Layton, figlio maggiore, lo sportivo, l’ottimista, verrebbe da dire, narra ai suoi e ai fratelli l’esperienza onirica della notte appena trascorsa: una donna con il volto coperto da un fazzoletto bianco, dapprima derisa da tutti, ma poi imitata, che al sopraggiungere delle tenebre mangia avida qualcosa che pare ancora vivo.



Al sogno è dato poco peso, ma, sembra suggerirci il poeta, ecco che “la morte” entra prepotentemente a far parte della piccola comunità. Un presagio che si svilupperà compiutamente nella seconda parte del libro, non solo con la notizia della scomparsa di Kristopher a seguito di un attacco alla nave su cui era imbarcato da parte di un sottomarino.
La morte del figlio, così inaspettata e repentina sembra riportare alla vita i protagonisti della vicenda.
Eleanor sente riemergere l’affetto per il marito ritenuto “volgare e grossolano” e Brian improvvisamente ritrova il ruolo di padre dal quale aveva cercato di evadere tramite il lavoro e qualche birra in più.
Layton, idealista e coraggioso, scosso dalla notizia decide di arruolarsi anch’egli, spinto da spirito di giustizia, sgravando in qualche modo il padre dall’accusa mossagli da Kristopher, o più precisamente dal suo spirito, e che forse ce lo rende colpevole di qualcosa che nel libro non è mai espresso chiaramente, ma consegnato a quell’isolata frase apparentemente fuori contesto «No papà, non è così: io mi sono arruolato da volontario perché ero contro le cose che tu hai affermato».
Layton giustifica il padre che non piange alla morte del figlio e coglie la sua frase «con il pianto rendiamo inutile ogni cosa bella che c’è stata, dobbiamo invece imparare da lui e da tutti quelli che con lui sono morti» che lo riabilita agli occhi della famiglia e decide, non per ribellione, ma in coscienza di seguire le orme di Kristopher.
Nella seconda parte la presenza dello spirito del fratello minore che percepisce parole e pensieri degli altri dà modo di interrompere il dialogo spesso secco tra i protagonisti e assume il ruolo di commento “fuori campo” sulle torbide vicende della guerra e del potere e sulle ipocrisie del genere umano di cui la sua famiglia è un esempio. Ma, allo stesso tempo indulge nei confronti dei suoi cari per il coraggio e il volenteroso sforzo di uscire da quella stessa ipocrisia. E sarà questa voce fuori campo a chiudere il sipario, questa voce che non giudica pur osservando lucidamente e che alla fine saprà comprendere il gesto folle di chi non ha saputo sopportare la propria insospettabile viltà di uomo.


Elena Pozzi