PREFAZIONE


CANTAR D’AMORE AI TEMPI DI INTERNET: LA “POESIA SCENICA” DI MARCO BOIETTI

Un uomo e una donna, diversi in età e in esperienza, s’incontrano, per un errore dell’agenzia immobiliare, in una casa che non è ancora di nessuno, ma sembra piuttosto un porto tempestoso all’incrocio di due destini. La storia inizia qui, posto che vi sia un inizio – o forse, come scrive T.S. Eliot nei Four Quartets , «in my beginning is my end». È una storia intessuta di parole e di lacrime, perché – come dice Paul, il protagonista, la vita è tutta «un compromesso con il dolore». Ma è incastonata in un dialogo che - quand’anche non rendesse esplicita, come invece fa, l’ambientazione teatrale - sarebbe scenografico già per la stereofonia della parola: una parola a tre dimensioni, sontuosa, che non teme di apparire, in qualche passaggio, perfino sofisticamente barocca. Non potrebbe essere diversamente, del resto, dato che per tutta l’opera memorie, lutti, traumi, paesaggi, isole e fuochi, la dimensione stessa dell’inconscio si rifrangono dal protagonista alla controparte: principalmente, va detto, in direzione univoca - cioè da Paul a Claire, che in quest’opera riveste la funzione vagamente psicoanalitica dell’ascolto terapeutico - ma talora, con inversione di tendenza, anche dalla donna all’uomo. «Esistono anime, anime elette/ inviate dal mondo/ ripetono i canti che il cuore ascolta/ come eco di sfere lontane», ribadisce Claire.
Il fatto è che appare sempre più difficile parlare d’amore, e per di più farlo in poesia. Prima di tutto perché una tradizione quasi millenaria di poesia amorosa si era già abbondantemente consumata con le neoavanguardie novecentesche. Poi perché su questi resti, già stesi come bare seriali sul selciato del secolo, stanno suonando le campane a martello delle suonerie digitali, dei social network multimediali, dell’industria culturale nel suo insieme, sempre pronta a riciclare sentimentalismi vieti, ma immortali quanto può esserlo soltanto il cattivo gusto. In queste condizioni, che cosa resta da fare ai poeti, si chiederebbe di nuovo Saba? Le alternative sono almeno due. La prima è restare in re e riciclare il pattume verbale, utilizzandolo in via più o meno scopertamente ironica (un’impresa che sembra a senso unico, ma in realtà ha moltissime uscite: si vedano gli esperimenti, in poesia e non, del cosiddetto “Realismo terminale”). La seconda è fare piazza pulita e tornare al grado zero, cercando una nuova significanza della parola. È la via che sceglie Marco Boietti, autore già non più alla prima prova, che continua a dimostrare in questo lavoro una fiducia fondamentale nella possibilità di risemantizzare il linguaggio lirico passando attraverso ciò che da sempre ne è il lievito madre: la poesia d’amore. Impresa quasi futuribile se, come dice ancora Claire, «neppure l’acqua mantiene più le sue promesse». Boietti affida alla scenografia il compito di incastonare, sdrammatizzandola, una gemma che da sola potrebbe apparire fin troppo ricca, ostentata e vistosa. Sulla scena, invece, essa può situarsi, appoggiarsi, depotenziarsi quel tanto che basta per essere riproposta con un’autenticità sua propria.
La scena, con la sua dialettica moto/immobilità, con la sua artificiosità voluta, è un contenitore molto particolare: una cerniera che lascia entrare, ma nel contempo crea distanze; assai più del puro linguaggio lirico, forse di più facile e ingenua identificazione.

Sulla scena teatrale il lettore non è il tu ammiccante a cui l’autore si rivolge, è il tertium che ascolta un dialogo che, quand’anche fosse mero monologo, si gioca sempre in una situazione concreta, fra un’implicita moltitudine. Il teatro, forse, è il luogo e il genere cui meglio affidare oggi il destino di molta poesia, soprattutto di una parola ormai consunta come quella d’amore. «Le parole hanno dimenticato a chi appartengono», recita Paul. Qui la parola tenta un riscatto postumo, giocando sul terreno dell’incomunicabilità: e proprio su questo tema, non a caso, sono basati molti fra i dialoghi. Come maestri, ancor più che il vate Gabriele, sembra di poter pensare a una genealogia novecentesca, testoriana o bellezziana: perché Claire non è né donna oggetto, né mera musa, né evanescente simbolo di sensualità peccaminosa o enervata. È donna vera, amata e amante, au pair – o persino, come ho già detto, posta su un piano superiore, d’ascolto e d’empatia.
Proprio alla parola, possiamo supporre, Boietti affida un compito di cura o di autoterapia, dopo gli scempi e i mercimoni novecenteschi. Non nel senso della poesia come terapia intenzionale (che ha prodotto, quasi senza eccezione, pessimi versi), ma per eterogenesi dei fini. Al riparo delle quinte, sui binari del copione, la parola di Boietti scorre turgida e copiosa. Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti in un vecchio film. L’architettura di una parola, in poesia, può fare la differenza. Non per niente, secondo Paul, anche «gli umiliati/ insorgono con le parole». I poeti affidano ai versi il compito di rimettere in gioco le parole, di farle nuovamente risuonare e significare. Si tratta, in fondo, di salvare la vita da ciò che sembra essere ormai diventata la vita stessa, in una costellazione di segni sempre più volgari e urlati, proprio perché sempre più vuoti. Quand’anche non sia salvata la vita, nel senso letterale del termine (ma forse non è questo che si può chiedere alla poesia), verrà ripristinato qualcosa di molto più duraturo e universale: il senso.
La parola di Boietti si propone di soddisfare i tre compiti che Pound attribuisce alla poesia: quello musicale, quello visivo e quello significante. La melopea è affidata principalmente ai dialoghi, alla verbalizzazione insistita e talora anaforica; la fanopea – come già si è detto – alla scenografia. La logopea, come in ogni opera poetica, si completa con la partecipazio- ne del lettore. Ci si chiederà se questa sia poesia oppure prosa, per quanto la discussione – lo sappiamo bene – finisca inevitabilmente per diventare poco interessante, puramente teorica e accademica. Per il ritmo e per le immagini siamo certamente di fronte a un’opera di poesia. Eppure il passo diegetico di questa scrittura ha la forma e lo spessore di una prosa, se per prosa s’intende una scrittura ad anse larghe, capace di accogliere con più agio il lettore. Ci si sente trasportati, quasi come in una narrazione epica, senza mai la sensazione – tipica di quando si legge poesia – di entrare in un luogo d’élite. E si ha la conferma che forse è ancora possibile ai poeti tentare la coraggiosa impresa di scrivere d’amore.


Alessandra Paganardi