Il sogno vola nella mente
tracciato sulla carta,
il lampo improvviso
irrompe nel cielo d’agosto.
L’uragano si annuncia
sul palo della tensione,
ecco l’ingegnere dell’infelicità
che lascia la stanza cieca.
Un dito cade inopportuno
sul tasto del mi bemolle,
il suono dello sconforto
echeggia nel buio.




Una linea di vasi per fiori
vuoti di festa
annoia anche il balcone,
si sentono i fremiti dell’estate
che è stata un tempo
lasciando cocci abbandonati.

Giorni radiosi sospirano
oltre la finestra,
rispondono alla luce
che chiede di sfogliare
altri colori,
portare una nuova metà del mondo
nell’orologio che segnerà
la prima ora del caldo.






La parola si trasforma
nel caldo avvolgente
di un filo di lana,
leggero, impalpabile.

Avvolge spirali
di bianche piume,
passa e va a disperdersi
nel prato della freddezza.

Sboccerà,
inevitabilmente,
nel nulla.





La luna è giunta,
è entrata senza bussare
attaccata alla luce color corallo,
vaga ubriaca di libertà.
Lasciatela ballare col vento,
senza la gravità di regole
che portano sempre giù.





Mi piace camminare
sulle nubi come sui campi,
lo dico al tempo che verrà
quando tra la mano prenderai
un raggio del tramonto,
mi riconoscerai dal filo
di quel gomitolo
che srotola il sole,
come il gatto
che ti sta venendo incontro.





Il tuo destino era comparire
dove il silenzio
chiama la morte
nel sacro bosco di betulle.
Mentre scappavi
il ginocchio franò a terra
e intorno il silenzio
si prolungò devoto
per simulare la tua esistenza.






Nasce così
forse per caso
con data certa
e padre incerto.
Entra nel solito
ordine che il tempo
gli assegna
con le stagioni
dei fatti cercati
e quella
degli incontri fortuiti.
Cercando quello
che di meglio
si trova sulla terra.
Variazioni di programma
possono rompere gli schemi.
Tutto si conclude
con un certificato
di morte.
Ma dovrebbe essere scritto,
invece,
quello di esistenza.





La massa di umido
si alza al suono del sitar,
la vela che passa
porta nella scia
il mondo immenso
senza domande.
Nella cornice di magiche luci
appare la porta d’Oriente.
Tutto il resto è superfluo.






Dalla finestra
gioca la luce
con le ombre,
era il sole di un sogno
mai raccontato.
L’umore non migliora
sulla scala della notte,
mi alzo a chiudere
la finestra sul mondo.





Non correre su quel prato
di maturi papaveri
che ti invitano alla festa,
sono cresciuti a casaccio
tra le pieghe della terra
e la confusione del cielo.
Strariperà quel rosso
nel supplizio
che ci colorerà le gambe di sangue,
non farti tentare da quei gambi
delirio non placato.
Finirai per sconvolgere la luna,
fermati, chiudi la porta al vento,
sono sirene che vanno per i viali
a colorare il mondo di fresco sangue.



Nel mare di spighe
scendono i passi
dell’ora più attesa.
Sento scendere
leggero il rumore
dei tuoi sandali,
tra code di ombre
e fiumi di baci.




Il respiro dell’attesa
si fa leggero
non entra quasi in bocca
quando cammina
passo dopo passo
sul filo dell’equilibrio.
Ora l’asta è ben bilanciata
e il cielo compra i biglietti
per lo spettacolo
di un cordone teso
quando la luce
si è già congedata.





Amo il sibilo notturno
delle zanzare,
mia compagnia,
nella danza sotto lune velate.
La natura ci ha partoriti
lupi tra croci di ortiche.
Mi siedo sulla schiena
di un fratello albero.
Vorrei essere indovino
per aver scelto
erbe meno dolenti.




Oggi sono stato in città
ma non ho fatto alcun incontro,
nessuno per le strade
tutti tremano nelle case.
Qualche sparo lo senti
ma più paura fa l’immaginazione
di quello che leggerai
domani sul giornale.
Torno a casa a mani vuote,
senza libri o pane o nuove idee.
Cosa metteremo sulla tovaglia?





Ho rubato il fuoco
e volo nel caldo
per le strade di Damasco,
l’eco dei passi ritorna luce
non suono,
a nord c’é una stella,
prodigio battezzato dalla luna.
Il mare gira le pagine
di un libro di storia
le case ascoltano
con le finestre aperte.
Entra il suono dell’oud
a regalare sfocate
invenzioni della sabbia,
nate dalla schiuma
al braccio della mezzanotte.




Perle e diamanti in vetrina
risvegliano il desiderio
del collo della signora,
possesso di pura estasi.
Il vetro riflette il viso
che disegna sogni impossibili
mentre la grazia respira.
Semplice splendore che sfuma
nell’essere delle vanità.





La pioggia fina incontra
la polvere
e insieme diventano
primitivo impasto,
chiudo gli occhi
mentre il vento
gioca ad accarezzarmi
tra le colonne
con le mani di seta.
Divento anch’io così
un bassorilievo del tempio.




Dove ti avevo lasciato,
mia piccola Ruth?
Tra le macerie dei palazzi
o sugli altopiani bombardati
dove gli occhi degli agnelli
sono ancora chiusi?
Gira la testa intorno
a questo mondo
dove leggiamo una pagina
e vediamo alzarsi
il falò delle coscienze
disperse come cenere.
Vieni, scendiamo da questa vita.
Il mare ci sta aspettando
oltre quelle dune.





Il volo di una farfalla accoglie
la rassegnazione insanguinata
vicino all’albero dei limoni,
arcobaleno di terra disadorna
per poveri emigranti
che dicono andé invece di Ande.
Si appoggiano le valigie
pesanti come catene
ed esce quel sospiro
che saluta il piroscafo.
La chiave di quel carcere terrestre
giace ormai sul fondo del mare.




Com’è disorganizzata l’aria
che non sa amministrare
la processione dei pensieri
desideri pulsioni promesse.
Tutto entra senza chiedere
poi stagna il disordine
orizzonte che si moltiplica
prima di uscire e lasciar pulito
quel nucleo di emozioni,
energia prodotta e subito
dissipata.




Lucenti sfiorano le mura dei canneti piume bianche come neve. Immacolate pennellate, nebulose regine d’acqua.




Sotto la torre che si trucca nell’acqua, bianchi fantasmi appaiono e si dissolvono. Sguardi sottili attenti e distratti sullo specchio dell’acqua vanno e vengono sulla passerella del mondo. Tra un cambio d’abito e l’altro.




Bianche feluche salgono il fiume le foglie degli alberi si inchinano a bere. Le ragazze in piedi col seno nudo le guardano in silenzio. Passano le feluche e le rocce roventi godono gli spruzzi alzati dai bambini che il fiume fa giocare nella sete di eterno.




L’Olimpo ha inviato sul buio della terra ambasciatori di luce. Il mandato divino portato dal vento increspa le acque. Lento il candore delle caravelle si avvicina. Sospeso sul velo d’estasi la catena di piume procede l’estetico giro.




Si dissolvono scie nella matassa di illusioni che il tempo non trattiene tra le canne piegate. A tratti piove. ma l’acqua effimera non scompone giornate di corte. Bellezza solare, anche con le nuvole.




Il viaggio li ha portati a riposare sull’erba alta delle abitudini La luna guarda sotto quella terra bianca. Profili sinuosi disegnano negli spazi la magia del sortilegio.




Nella purezza si destano soli e beati. L’alba li attende. Le porte sono già aperte per quell’invito fecondo che viene a incensare le cose del giorno.

Che bello questo cielo
malato di primavera
che porta lontano
chi vuol salirvi
con la levità
del primo amore.




Stai guidando
in una notte
più buia di altre
cercando una casa
che ti sembra
irraggiungibile.
Qualcuno al tuo fianco
ha già ceduto
ad un sonno
pesantemente inesorabile.
Resisti alla stanchezza
e le stelle cambieranno
il loro corso
per illuminare
il volo
della piccola lucciola.





Quando nel tortuoso
percorso
che è questa vita
avremo ancora
nel grembo di umanità
la forza di alzare la testa
e ascoltare la dolcezza
di melodie
così concepite
torneremo nella culla
da cui siamo venuti,
dove nascere e morire
sono note
dello stesso spartito.





Ti ho incontrato
in sogno
e una lacrima
è scesa dagli occhi
tristi.

Al mattino ho sentito
sulle mie labbra
una goccia salata.




Quell’isola aspra
e dolce che avresti
certamente amato
è rimasta per noi
un mondo di mistero
lontano e dimenticato.
Vivrà dolce,
malinconico sogno
in una valigia
mai fatta.




Dalla indifferenza
quotidiana
mi lascio trasportare
in una laguna
di silenziosa solitudine.
Invano cerco un senso
in questa pioggia,
fine e leggera
che ha bagnato di dubbi
tutti i miei vestiti.





Seduto sulla spiaggia
avvolto in una coperta
per l’aria frizzante
d’autunno
guardo il mare
per la prima volta
senza te.
Un piccolo bastardino
si avvicina per annusare
quell’isola di solitudine
che rimane di me
sulla spiaggia deserta
in un’alba di metà ottobre.




E’ così lento
che pare immobile
questo consumato
cargo
che ammaestrato dal tempo
prosegue docile
il suo viaggio.

Mi pervade
una impermanente
sensazione
di esistenza violata.

Da dietro un oblò
un accenno di vita,
forse un gabbiano
e là selvaggia e primitiva
mi appare
prossima la terra.





Sei partita.
Il pensiero si forma
lento,inevitabile
e subito è dolore
quello che provo
fermo su questa pensilina
deserta.
Mi racconterò una storia
per consolarmi
senza crederci troppo
in questa estate così
calda anche per me.
Oggi vedo intorno
a me una città
ricca solo
di malata solitudine.





Impercettibile
come coltre
densa e fine
calasti silenzioso
dentro me,
fingendoti
con studiata
noncuranza,
ospite fisso.
Ma anche
senza invito
alcuno,
finisco, rassegnato,
per farti rimanere.



La vedi l’irrequietudine dell’acqua
riconosci l’invisibile
intrisa di primavera,
disegna figure a forma
di otto,esse,zeta.
Valica le sponde dei canali
nutre gli acquitrini
riempie i catini le brocche
i bicchieri le gole.
Si leva dal letto presto
nuda come la colomba.




Deciso entra il remo
per dividere in due
l’anima dell’acqua
impaziente di risalire
a vedere il cielo.
E poi di nuovo giù
a scrutare quello
che la curiosità del fondo
invita a scoprire.





Viene la pioggia
e un tetto si offre ospitale,
entrano anche le gocce
avide di trovarmi
seduto sul fieno amoreggiare
con l’asciutta malinconia.




Le parabole ci hanno guidato sin qui,
con segni eclissi e calendari,
la stagione muta
la spada dell’inverno esce dal fodero
il fiume si trasforma
senza conoscere l’ultimo approdo.
Distruggo queste pagine
che non sanno dare carezze
ma solo bruciare senza scaldare.





L’oceano presenta le onde
impeto di cavalli da corsa
sulla pista che alza i ricordi
di un mondo di bambino.
I cavalli sono fermi
nella sudata stanchezza,
quello dalla criniera cangiante
si muove a guardarmi.
E’ lui,
il cavallo a dondolo
destriero dell’infanzia.
Mi attende il tramonto
prima di cadere addormentato,
stanco cavaliere della vita.




Si potrà non essere d’accordo
col modo di fare,
in fondo anch’io comprendo
che tre giri di temperino
le fa più corte e meno importanti.
Ma una matita con la punta
è molto più offensiva di una lancia
quando scrive verità
sfacciatamente impossibili.




Si sono spente le luci nel corridoio.
Il dolore sul volto caldo
va a incontrare le reti fredde
di questo materasso
e l’ossessione aumenta.
Pensieri moribondi
sputano sogno e fuoco
per portarmi la Chimera.
Tutti ti lasciano chiuso
nel tronco cavo del delirio.
Esce cupo il sangue
desideroso di mescolarsi
alla pioggia e andare
per il mondo senza te.

Venne il tempo della morte,
la luna è nel pozzo
e la candela dei desideri
è alla fine.
Un’altra vita messa in vendita.




Splende come mare
la luce infusa
sul verde dell’acqua.
Verde piatto
prato asciutto
dove muovo i primi passi.
Quella terra erbosa
non vuole essere turbata
neppure dal piede
che la sfiora.
Giunge il vento
con il suono dell’arpa di Merak,
brillante del cielo
ombra sulla terra,
ad accarezzare il mansueto tappeto
intrecciato con invisibili
sfumature d’erba.




Il postino è nemico
della mia tranquillità
mi porta lettere pesanti
e io questa notte
non ho proprio tempo,
l’insonnia mi attende
per fare il giro del mondo.
Via manderò romanzi
più vendibili delle mie poesie,
parole scritte e nascoste
sotto città di sabbia.
Qualcuno dovrà dimenticare
le cose che hanno preso vita
e che avanzano
come tartaruga o lepre.




La sera di luglio
volo sulle ali
del sogno
che mi porta
comodo bozzolo
prima di diventare
regina di colori.

Il caldo mi lascia
sopra l’acqua ferma
dove posso bere
senza bagnarmi le ali.

E mostro alla luna
queste colorate trasparenze
diverse da come appariva
la mia pelle,
quando ero uomo.




I pensieri disordinati sono la foglia, - le foglie - alla ricerca di in nuovo posto. Confermano il caos delle forme. Si fanno stoffe a forme di cuore nell’attesa di trovare uno o mille motivi per accelerare il battito quando si affacciano quei colori su di noi.




Le chiavi del futuro sono scivolate nello stagno, una nuvola le vede e scende a cercarle tra i canneti. I chiavistelli di rame si fanno trovare sul fondo. addormentati. Allora si svegliano per aprire i ricordi lasciati fuori. Al buio.




Quattro piume si battono nel fresco della sera, si scontrano curvandosi e oscillano tra le strade del tempo. Un soffio malandrino le abbatte nella implacabile polvere. Che alla fine vince. Sempre.




I pensieri non resistono a tornare a quell’impulso del male che la forma dell’istinto gli suggerisce. Fiorisce la gramigna e la mente vi passa nel mezzo. Sarebbe bastato un giorno votato alla luce . Il finale non aspetta.




In taluni giorni vagava una figura fatta di fango indurita dal sole. I giorni più fantastici erano quelli. La gravità del vento la lasciava indifferente come un picchio attende nella tana che gli elementi migliori quando verranno. Solo a sera si sedeva al tavolo per leggere quel percorso ammorbidito dal fiume.

Il preludio di Chopin sveglia
la bambola che si strofina gli occhi
come l’aurora al lago
ma è una bambina che guarda
nello specchio la moltiplicazione
degli anni.
Il desiderio di vendicarsi
acquista più gusto
se inzuppa il boccone
nella malinconia di note
quando l’araldo annuncia
il passaggio di un altro anno.




Si stacca in un attimo
dall’albero del tempo
la foglia sottile
che compete con la libellula,
taglia in due il silenzio
del cielo
tra calde correnti
che la ghermiscono
e la sospingono
dove l’attendono desideri,
malati di modestia.






La luna continuerà a navigare
mentre le domande più forti
giungono a riva
e le risposte più deboli
sono già annegate.
Ogni giorno è più piccolo
nella sete di limiti,
me ne andrò lungo
le spirali di luce
a giocare con la musica
delle acque.
Il sale del mare ha trasformato
il cuore in una ragnatela
che sale e scende
nel recinto del corpo.





Davanti al riflesso delle parole
chiediamo al mondo
di mutare forma,
di cambiare banco di prova,
dal principio alla fine.
Ma si presenta un rinnovamento
diverso dall’attesa
più inquietante o rassicurante.
Non so.
Anche la parola si fa inflessibile.
Parlo una lingua straniera
con un accento privo di certezze.






Chiama la sete ma l’acqua
piange per strada senza crocevia
anche le stelle non riescono
a fermare la sabbia rovente.
Siamo freccia con l’arroganza
di infrangere il cielo
per restare in sella alla memoria
nella pianura infinita.
Quattro strade di luce
restano disegnate tra gli oleandri.





Guarda i faraglioni ardenti di luce,
non riesci a capire se siano sommersi
o coperti dalle tombe delle alghe.
Quel mare ci rende inseparabili
anche se quando mi guardi
non sono più lo stesso.
Ti ho, mi hai.
Ma il colore dell’acqua è cambiata,
viviamo specchi di sogni
non più uguali.





Il grido arriva più forte
a spezzare lo specchio
e deformare
l’origine del mondo.
In questo luogo
anche la parola
non si fa più chiamare.
Riportala, non esitare,
dall’altra parte.





Torno dalla foresta
dove il vento ha rigurgitato
detriti d’amore.
Mi chiedi cosa ho da offrirti?
Venere non mi ha confidato
segreti sotto quel sole di ombre.
Non so leggere né scrivere
ma andrà a scuola questo fiume
che si ritira a ogni tuo passaggio.






Quanti particolari siamo
un’addizione di dettagli.
Non è niente ma è tutto.
E di questo elenco
di momenti cuciti
ci parla lo spazio del racconto
che disorienta i ricordi.
E dopo sopravviene il silenzio
in quell’infinito finito,
un pò imbarazzante.





Costa fatica stare in piedi
su una pertica
o sfiorare la fragilità
delle promesse sopravvissute
al naufragio dei sogni.

L’amore resta nomade
bolla d’aria
in balia del vento
che coltiva ambiguo
le illusioni
che svaniscono.

Senza esistere.





Guardo da dove sono venuto
l’immensità è disarmante
come le rotte malinconiche
delle navi
ma qui non c’è neppure
il fervore del porto.
Il corpo si adagia nella solitudine
e il vento ne approfitta
per tastarmi i lineamenti
della bugia,l’unica cosa
che conosca e che mi dice,
di ritrovarmi su quel mondo.
Solo.




Il suono di benvenuto si alza
con il suono degli uccelli variopinti,
questo orizzonte lontano
dà segno di accettarmi nel suo sé
quando apro gli occhi al mattino
immerso nel mondo dei pensieri,
codice non scritto della mente.
Non rinnego il suo viso.





Piccola o grande da diventare
l’abitudine,l’approdo terrestre
è esperimento di coraggio
o di curiosità.
Ho lasciato il corpo sulla sabbia
l’impronta si è allontanata
ma la nostalgia non chiama
come la stella che si sta
per addormentare.




Tra le congiunzioni astrali
sibila il vento bussando
a una porta che non esiste
in questa casupola
di rami intrecciati.
La notte sarà ramo secco di tè
nel palmo della mano
la luna si rattristerà
come viola delicata
dell’astro che non vuole
spegnersi.





La notte parlava di cose
le chiamava per nome
e io ascoltavo e imparavo
quelle identità
che volontà o ragione
avevano partorito
dal creato.
La vespa vuol dividere
quello che di marcio
gli alberi lasciano
cadere a terra,
miseria della bocca.




Questa notte le ho sentite
le ombre,tramavano per ribellarsi
prima che il mondo cadesse
come meteora incendiata.
In quel momento,
sul fronte della spazio
osservando
il nulla,sentii l’eternità
della passione che non copre più
il cielo della mia bocca.





Sono seduto eppure
mi sembra di correre
nello spazio e nel tempo,
scendo dal pagliericcio
e lascio sospendere
il corpo sul mare.
Ogni cosa che trovo
è una conquista
ma forse sono stato io
ad essere conquistato
da questa terra.




Quelle onde eterne
che ospitano sui fondali
taverne marine
vengono solo per leggere
nella notte queste poesie
e poi scappano
lasciandole incrostate nel sale.
Vestali del mare
riempite il calice di profumo
e moltiplicate
i miei desideri di luce
che intravedo furtivi
ma ostinati
sulla soglia del mondo.





Non ricordo più giorni ma istanti
dove l’alba emerge dal mare
il buio torna a cantare la vita,
mi veste la camicia bianca
come il giglio di mare che sospira
al suono delle palme provocate
e vivo quel silenzio,
re di ogni parola.




L’anima ha punte di febbre
il prigioniero deve espiare,
al calar del buio
le parole sono paradossi
che hanno solo il coraggio
di uscire nel mare nero.
Sulla fronte malata
sospira il silenzio
vicina all’acqua ferma
nella tinozza.
Sto perdendo la vita
in giorni malati
in un’isola chiamata
poesia,
il più rinnegato,il più amabile
fiore della sofferenza.




Dondolano dal pontile i piedi nell’acqua scende come velo da sposa una cascatella tra l’essenza dei tigli. Nel silenzio passa lo scintillio dei cigni che inseguono il talismano profumato di moti immobili. Nella luce si danno convegno bellezza e meraviglia.




Dalla vetrata del mondo non vedo più quel bianco fugace ribelle al tempo. Forse disciolto nella metamorfosi della via lattea.




Deciso entra il remo a dividere l’anima dell’acqua. Poi vince l’impazienza per risalire a vedere il nuovo cielo. E poi giù di nuovo a scrutare quello che la curiosità invita a scoprire.




Dal buio pende la corda che termina all’estremità con la sfera. Si muove nella retta d’aria avanti e indietro, monotona come fila di alberi. Nell’universo camuffato.




Sulla tavola si invitano sibili di vento che raffreddano la minestra che ho davanti. Sposto il piatto e apro il libro mentre il gufo respira tra il groviglio dei rami. Il cielo tinto di nero si avvolge in una pelliccia. Sarà inverno quando si sveglierà la rivoluzione del mondo. Oggi rinviata.




Correva quella fuga irruente e magica spinta da forza cieca, Implacabile il tramonto tagliava il nastro della linea matematica delle stelle. Quella che del giorno prende le distanze. Consueta occupazione.




Li sentiva talvolta gli altri intorno a sé. Buone promesse legami adiacenti alla solitudine distante. Luce illusoria che nel lineare buio non deraglia. Visioni vicine e lontane cui stare in piedi sopra le stelle.




Fragola, lavanda, corallo mischiati tra loro, magica pozione di colore copre le zone più remote dell’anima. E’ impossibile imporre anche agli altri la visione del misterioso coacervo