Il titolo di questa nuova raccolta di Marco Stefano Boietti ha la potenza di un lampo che squarcia il buio di una landa desolata: è infatti la prima cifra di comprensione di un percorso che, per verba, disvela l’arcano mistero del creato e del vivere. Nella letteratura novecentesca, il Boccadoro di Hesse rappresenta l’artista immerso nell’infinito, libero e fanciullo, che vuole conoscere il mondo attraverso i sensi, l’amore e la libertà. Così fa il poeta con i suoi versi: cerca di giungere al cuore delle cose, per se stesso in primis, anche se poi, in un impeto di generosità, indica il percorso anche a chi si imbeve della sua vis poetica, permettendo di capire che questo sentimento così forte è da intendersi soprattutto come voluttà, come si intuisce facendosi abitare dalle sue parole: “Le ore sono poche/voluttuose/ho il cuore in gola/donna della mia adolescenza/sono un granchio/arenato” (pag. 17). In questa dialettica, l’amata offre all’amante la pienezza della condivisione, ancorandolo, come un granchio, al suo corpo. Ed è proprio l’attrazione unita al desiderio a riempire della sua presenza l’intero universo di Boietti, come evidenzia anche il sottotitolo Poesie d’amore: lo sente talmente presente dentro e fuori di sé, da arrivare a chiedersi ad un certo punto: “Che forma ha il nostro amore? […]” (pag. 68). La risposta è difficile, ma alla fine la trova e decide di condividerla: “È un’indolente menzogna/senza forma plasmata,/solo materia fluida smarrita/quando si scioglie./E non c’è ritorno” (ibidem).
Ma non è solo l’amore ad essere oggetto di attenzione, è l’esistenza nel suo complesso: dai versi si evince la presenza di un ciclo vitale regolatore, che fa passare gli uomini attraverso la gioia che deriva dalla bellezza, conducendoli poi fino all’abisso di disperazione del dolore, per farli, infine, risorgere dalle loro ceneri. Boietti usa una straordinaria immagine per descrivere questo corso e lo definisce “la quiete d’oro” che altro non è che “il cupo dolore nascosto nella vita” (pag. 59).
Quanta veridica
potenza in questa sequenza versale, che, come vibrante ossimoro,
accosta il brillio abbacinante dell’oro alla quiete, per poi
trasformarlo nel dolore più profondo, che può essere cancellato
solo da “labbra umide” (pag.56). Nel percorso, opportunamente
diviso in sezioni, si sperimentano suggestioni immaginifiche di
reale veridicità: non sembrino queste parole una contraddizione in
termini, ma siano utili, al contrario, a suggellare la reale
concretezza del verbo poetico, che, come potenza creatrice, riesce
ad ammantare di straordinarietà il vero.
Non si può trascurare, infine, la carnale genuinità che emerge,
come sempre, con impeto: siamo sangue e carne sembra dire l’autore:
“Intravedo una dolce mela/che rosseggia,/mi esce, un dove
sei?/[…]Vieni a raccontarmi/altre misure di favole/con l’arte del
corpo./Roveto di piacere/che la camera/fa ruotare tutta di rosso”
(pag. 74). Il grido che si alza alla fine sembra dire che solo
attraverso l’arte è possibile dare tangibilità ed eternità alla
bellezza dell’esistere e dell’amare, riuscendo così a vincere la
caducità crudele che connota il fluire dell’essere; e, ancora una
volta, Boietti è riuscito a farlo.
Federica Mingozzi