PREFAZIONE

Marco Boietti, poeta sensibile e fantasioso con già all’attivo diverse raccolte di versi, esordisce questa volta con quella che si potrebbe definire una “sceneggiatura poetica” ambientata in un luogo non luogo: una Nuova Delhi solamente suggerita dai dialoghi e suggestiva al pensiero, che fa da sfondo a una vicenda piuttosto lineare ma particolarmente simbolica. Ne La coda del pavone – titolo piuttosto significativo, se si pensa che nella mitologia indiana questo animale rappresenta il cielo stellato e quindi qui , nello specifico, uno sguardo dall’alto sulle vicende umane – a emergere è soprattutto un senso di fragilità e precarietà che accomuna tutti i personaggi travalicando i contrasti socioculturali propri della megalopoli indiana e di tutto il subcontinente. Gurnam, affermato avvocato, non è poi tanto diverso dal fratello Samir, vecchio e stanco, costretto a condurre una vita ritirata ai limiti dell’indigenza, quando si trova a confrontarsi con i tornanti della vita, quando il figlio Achal lo pone di fronte a una presa di posizione che coinvolgerà il futuro di tutta la famiglia, quando l’amore filiale lo spingerà a compiere un “salto immorale”.
L’uomo, abituato a trovare una giustificazione alla sua “tattica” nell’esercizio della propria professione – «non sono più malvagio di altri/ quando mi sento circondato/ da chi si sporca più di me» –, si lascia andare a un’amara riflessione, dove si scorge il suo essere preda degli eventi: «Mi hai portato/ sulla strada più malvagia/ la mia vita si è legata/ all’incantesimo del male». L’essere artefice del delitto diviene un qualcosa di ineluttabile, del quale sente il peso della colpa, ma al contempo l’impossibilità a sottrarsene.
Samir sembra assolvere il compito di una voce fuori campo, non partecipa agli eventi, tuttavia nelle sue parole trapela una consapevolezza antica, «nulla è come appare», e una verità nuova «Solo nel giorno senza sole/ riesco a incontrare/ il futuro di Rajiv» che avrà il suo compimento alla realizzazione del folle piano di Achal.
E nei tre giovani protagonisti si respira una forte inquietudine esistenziale, Achal, che “ogni notte conosce nuovi sospiri” tra case di dubbia reputazione e una vita dissoluta e viziosa e che forse, sembra suggerirci il poeta, proprio per sfuggire alla sue spire si invaghisce della bellissima fidanzata del cugino, facendone la sua ossessione d’amore.
Rajiv, un lavoro che a malapena gli permette di sostentarsi e un padre malato al quale sa di non poter prestare consistente aiuto, e infine Talikha che sente il suo amante lontano e il suo sogno d’amore svanire di giorno in giorno sotto i colpi del destino.
Talikha, inconsapevole vittima di un gioco di potere più grande di lei, movente dell’atto delittuoso che porterà all’incarcerazione di Rajiv e alla tragedia finale. Talikha, nelle mani delle quali Boietti affida il messaggio di speranza che tutto può, più correttamente “ha il dovere” di ricominciare con una consapevolezza nuova e uno sguardo comunque rivolto al futuro.
Ne La coda del pavone sono le dinamiche interne ad avere rilevanza, la trama non è complessa, il che fa emergere pensieri e vissuto dei singoli protagonisti, e più di tutti, del vero protagonista che verso dopo verso sembra proprio essere Achal. Il giovane non possiede i “valori” del padre, quelli relativi all’accumulo di ricchezza - «Siamo fatti per noi/ non per gli altri,/ per costruire la torre/ del guadagno/ e della ricchezza» riflette Gurnam - quella ricchezza se la ritrova tra le mani e il lavoro non ha per lui alcuno stimolo. Achal riesce soltanto a constatare passivamente la propria condizione privilegiata, ma non si ritiene affatto fortunato, semplicemente, le cose stanno così - «Il potere che il denaro regala/ non avrebbe potuto trovare/ un luogo più propizio,/ questa è per eccellenza/ la città dei disuguali,/ dove non puoi scegliere» -, egli sta cercando qualcosa di diverso, la fuga dalla sua vuota realtà, che lo porta a consumarsi tra lussuriosi incontri fugaci, sembra aver fine paradossalmente con un sogno nel quale intravede una nuova piena realtà: «l’incanto che cercavo/ la certezza della via», Talikha, giovane e bellissima («in quella abituale bellezza») che compra cibo al mercato.
Da questo momento per Achal non esiste più nulla, la vede dove forse non c’è, la idealizza, non ha più requie, implora il padre di aiutarlo, il quale invano tenta di farlo ragionare - «quel fiore cresce/ nella radura vicina/ma a te lontana» - minaccia il suicidio, infine lo corrompe inducendolo a pagare qualche povero disperato per sbarazzarsi del cugino Rajiv, il rivale d’amore, l’ostacolo alla sua delirante felicità.
Ma il suo gesto non lo porterà al risultato sperato, Achal esce pian piano di scena lasciando spazio solo al dolore causato dal suo folle gesto e il suo futuro diviene evidente nelle lapidarie parole del padre «Sei entrato in quel mondo/ da dove non se ne esce, mai,/ figlio mio,/ […] La musica del dolore risuona ovunque./ Avevi voluto che fosse scritta così, no?».






Elena Pozzi


Anna Lamberti-Bocconi