EST

A Est dolore è vivere, il nulla che vale nulla
in una nebbia che non riconosco perché più
trasparente della mia,
tutto è diverso, anche il giorno che nasce
ignorato
e la gente che conosco ti fa abbassare gli occhi
perché la mia virtù è diversa.
Non mi inebria più la magia della primavera
che mi prendeva la bambina nel suo grembo
ora i sogni sono stremati
il giorno consegna il nuovo nella camera
del torpore.
Il conforto sarà vivere il sapore della rivalsa
quando scoccherà l’ora annunciata
in un mondo che non è questo.
Quella casa aveva pareti sottili
come quelle del mio cuore e la pioggia bussava
ma non era mai invitata.
Un treno aveva già portato via gli anni più belli
di ragazze ancora più belle che qui sbadigliavano
alla vita,
chiudevano quel mondo con lo spago nella carta
di giornale e su binari gelati lasciavano inquiete
lacrime di addio.
Guardate le stelle sopra il vostro cuore,
hanno il profilo delle ombre, sferzate dal vento
che mette in dubbio la vita,
la ribellione aveva trasformato l’amore in invenzione,
si era spenta la fiaccola magica che illuminava
la fantasia della bambina che sognava seduta
sul trono della verità e della speranza.


La valanga precipita nel cuore
la cittadella rimane mondo disabitato,
sopravvive su un tetto della città ferita
l’orgoglio, bagnato di solitudine,
forse questa terra non ha radici materne,
la mia esistenza vive epoche lontane
calata in solchi che induriscono la pelle,
sono persa tra le mura del mondo.
La valanga di rabbia scende la via
della disperazione mutilando selvaggiamente
gli ideali con la forza della vergogna,
lasciare tutto, anche i fazzoletti coltivati
in quella terra che ha conosciuto
la notte nera della guerra, la vodka spremuta
dal cuoio, la bambola riempita di frumento,
lo sguardo di quella luna che era scuro
come il cuoio della vecchia valigia.
Pesante come la sofferenza delle pietre
che già assaporano il gusto di lapidare
capelli biondi che cadono su occhi azzurri.
Perché non mi parla questo giorno
intriso di tenebre dove nell’interminabile
travaglio si taglia il cordone ombelicale ?
Il dolore sceglie per me per la fame scura
che ci portiamo nel bosco, la storia
non ci ha portato risate facili in sere lontane
quando la ballata si nasconde a piangere,
la distanza è il vuoto, per me nero abisso.

L’ indifferenza si siede sul vagone a guardar
passare aride radici nate lì, dove ballano
solo le farfalle e il miele di rado scende dolce
le fisarmoniche attraversano l’aria
mentre i girasoli si voltano a salutarti.
Il tempo della luce passa velocemente
o si è fermato tutto?
Nel deserto della strada il centro del mondo
sono io, seguita dal corteo di paure e incertezze,
sono quasi irriconoscibile, perderò prima
l’identità fotografata dalla povertà senza che nessuno
se ne accorga.
Le lacrime riempiono il crepuscolo e si riversano
nel fiume che l’inverno riceve per dissetare
quel fondo oscuro.
La vita si ferma congelata e il vento sembra tagliare
la pelle in strisce di carne per sfamare
quella sacca vuota dello stomaco, la fame parla dal fondo
la bocca non sa cosa dire nell’aria pregna di zolle
e di carbone che il finestrino abbassato lascia entrare.
Sotto quella terra dormono i dubbi, la neve conta i fiocchi
ma un’utopia ha bussato invisibile al risveglio,
ti trovi legata da un uomo che ti fa sfolgorare
ma non in una sfilata sotto il mantello della notte,
è una vertigine quello spazio da cui pensavo di cadere
nell’amarezza più greve.


La sete del denaro lo stormo dei ceffoni e l’alcol sostengono il corpo richiesto e voluto di chi non rinuncia
a certa vita e non si volta più indietro, sento il corpo
squarciato da uragani umani, sono ciechi e insolenti:
cresce il fuoco dell’ostilità a quell’esistenza che regala
sogni di feroce tormento venduti da mani incapaci
di carezze.
Mi abbandona di nuovo il sapore della vita,
armo il corpo ferito e scelgo la voce del rancore
che fa galleggiare solo il sale delle lacrime.
Quante strade aveva la vita, le contavo le sognavo
le inseguivo in quel letame di letto,
dove un incontro seguiva l’altro e il lenzuolo
accoglieva una fine esausta che faceva assopire
l’anima del ricordo.
Una pace lontana un’altra latitudine una barca
con cento falle il mare chiamava a sé, invocavo
il momento in cui la piovra avrebbe avvinghiato
il corpo e i capelli sarebbero diventati
fluenti alghe per nuotare nella corrente distratta
delle oscenità che non si possono ricordare.
Nell’esilio della vita ho scelto di essere acqua
che scorre, rivedo lo scialle del passato, sopra
i capelli intrecciati il giorno del mercato
vicino al banchetto delle uova, pulite bianche
candide e perfette: ecco la natura deliziosa,
la semplicità dell’uovo, che orrore!


La mia vita emanava ben altre sensazioni,
si levava un alacre odore di sfortuna
e l’avvenenza che la vita mi aveva donato
chiedendo sacrifici che vivono ai margini
della sconfitta.
Ho attraversato il grande mare immorale
e sono qui in un mondo che riesce bene
a terrorizzarmi con il sudiciume degli esseri
e il puzzo dell’abito della loro pelle
lavata nella rugiada dell’orina.
Questo e altro si diffonde in questa stanza
dove i sogni ballano agli occhi dei clienti
sprezzanti dell’ordine, del vaso di fiori,
vedo solo occhi irriverenti, chiudo i miei
a quel mondo per non essere riconosciuta
alla luce della lampadina ancora più esangue.
La prigione è questa terra ancora inesplorata
dove ho sepolto speranza che guardava nuvole
più chiare,
dorme il corpo stanco e usato, ingannato dalla
metamorfosi di gemme amare, il sole mi provoca
ma è la pena a portare buio e disperazione
come andrà varcato il vuoto che vive in me?
Estasi sdegno e delusione piegate dal vento
ma su tutto troneggia la disperazione
che fa rompere lo specchio e taglia il collo delle rose.


Ho cessato di amarmi, la fede è dono per pochi,
la mia cammina sulla corda sospesa
fugge e si allontana si nasconde si trova per riperdersi,
lo spirito dell’orgoglio marchia la resistenza
col sigillo del non ritorno, una salva di cannoni
annuncia la decisione, ho rivelato a una stella
l’inquietudine della sera, mi rodono già i vermi
quando busserò alle porte d’oro del cielo.
Un sospiro chiudo gli occhi, un passo oltre
le ultime tegole e volo nell’oscurità della notte
che già non mi intravede più.