La categoria dell’essere “vecchio” definisce in molte culture una
tappa del ciclo della vita di un uomo, una fase caratterizzata
dall’assunzione di responsabilità politiche e sociali.
Il tempo della vita di un essere umano, in genere, non scorre in
modo lineare, come un fiume alla foce ma è scandito da sbarramenti,
soste e rapide progressioni.
Le società danno forma al tempo organizzando la vita in sequenze,
separate da momenti rituali che segnano passaggi.
L’espressione “riti di passaggio” fu resa celebre all’inizio del
Novecento, da Arnold Van Gennep, antropologo di origine belga che
mise a confronto società “esotiche” ed europee proprio a partire
dal modo in cui esse ritualizzano passaggi fondamentali quali la
nascita, l’ingresso nell’età adulta, il matrimonio, la morte.
Uno dei passaggi su cui la letteratura antropologica ha
maggiormente insistito è quello dell’età adulta, caratterizzato in
molti contesti da prove iniziatiche.
Che fine hanno fatto i riti di passaggio in Occidente e in
particolare nell’Italia d’oggi? Come si diventa adulti in una
società caratterizzata dall’assenza di lavoro stabile,
dall’indebolirsi di ritualità ampiamente condivise, dal diffuso
ricorso a forme compulsive di consumo?
Una delle tesi che sostengono l’indebolirsi (se non la vera e
propria scomparsa) dei riti di iniziazione è legata ai cambiamenti
nei rapporti intergenerazionali avvenuti negli ultimi anni.
La figura del padre, in modo particolare, è mutata. Il potere che
un tempo caratterizzava il suo ruolo sociale è stato
“redistribuito” tra i figli con i quali spesso si attua un rapporto
di complicità; le generazioni sono “confuse”, la condivisione in
famiglia eccessiva. I padri si vestono come i figli, si tatuano e
si fanno i piercing, vogliono essere trattati da giovani e non da
vecchi.
Il passaggio dall’adolescenza all’età giovanile avviene presto
nella nostra società: si diventa in fretta ”giovani adulti”, una
categoria inventata di recente, una tappa della vita che tende a
durare per un periodo indefinito.
Si rimane a lungo giovani adulti, forse troppo a lungo.
Si vive per un tempo indefinito in una “famiglia lunga”; se ci si
sposa si va a vivere molto vicino ai genitori,che offrono aiuto
nell’accudire i figli. Il bozzolo protettivo rischia di
imprigionare il “giovane adulto” in una sorta di adolescenza
prolungata.
I riti di iniziazione non sono del tutto scomparsi, ma si sono
trasformati in riti “a bassa intensità”, essi, cioè mancano di un
ampio riconoscimento pubblico, di significati socialmente condivisi
e tendono ad assumere un carattere quasi privato. Manca soprattutto
quel rapporto asimmetrico tra le generazioni che caratterizzava i
riti di un tempo.
Una delle ragioni dei rischi cui va incontro una società che ha
abolito i riti di passaggio è l’incapacità degli anziani di
celebrare i passaggi lasciando libero campo alle corporation dei
consumi. L’acquisto del primo telefonino,l’accesso al tablet, il
motorino e l’automobile personale, scandiscono il progredire
dell’età nella nostra società.
Abbiamo affidato l’iniziazione dei giovani alle grandi aziende che
li conoscono bene; il consumo definisce il loro cursus honorum. Un
ruolo importante è svolto anche dal gruppo, i compagni di scuola o
gli amici che definiscono le modalità e le fasi della
“crescita”.
Una conclusione con certe basi di fondatezza è che la mancanza di
riti di iniziazione è il segno di una società egualitaria nonché
l’inganno di una civiltà dei consumi che costringe i giovani adulti
a vivere in un eterno presente.