Sino ad ora le sale da concerto, in tutto il mondo, sono state
l’esatto opposto dei non luoghi: l’ascoltatore di musica classica
che vi entrava ritrovava tratti familiari, rassicuranti, capaci di
dare un’idea di casa anche a migliaia di chilometri di distanza. Il
segno più forte, la traccia identificativa di un auditorium, era
che - quando il concerto fosse cominciato - tutte le persone
presenti si sarebbero trasformate in ascoltatori e avrebbero
vissuto bene o male la stessa esperienza, sottoponendosi ad una
serie di emozioni potenzialmente molto intense e capaci di
assorbire in modo tale la concentrazione. La carta di caramella, il
sussurro troppo sonoro, la suoneria lasciata accesa, più che un
segno di maleducazione, erano una ferita, una lacerazione
nell’atmosfera emotiva che si creava lì dentro: era ovvio,
dovunque, e mai sarebbe venuto in mente di doverlo ricordare.
Bene: le cose sono cambiate. Il godimento la gioia di immergersi in
un concerto gestendo le proprie emozioni in modo intimo, la stessa
capacità di assistere a qualcosa di importante senza comunicarlo ad
altri in tempo reale, non sono più patrimonio comune. Soprattutto
per i giovani, l’ascolto della musica - così come qualunque altra
attività umana - passa, come è noto, attraverso la condivisione
immediata via social network. Così qualcuno ha cominciato a tirare
fuori uno smartphone e a mandare un tweet per raccontare che stava
ascoltando un concerto senza curarsi del fatto che, in una sala in
penombra, avere un vicino di posto intento a scrivere su uno
schermo
luminoso non è esattamente il massimo della vita. E, arrendendosi
all’evidenza, poco dopo negli Stati Uniti e in Australia alcuni
organizzatori si sono rassegnati a prevedere, in zone specifiche,
delle sale, dei settori dedicati agli irrefrenabili.
Tweet seats si possono dunque già comperare per assistere ai
concerti della San Francisco Symphony, della Cincinnati Simphony,
della Indianapolis Symphony, della Pacific Simphony, della Dayton
Opera; e la stessa cosa in ambito cameristico, è stata fatta dalla
società di concerti australiana Musica Viva, in occasione di un
concerto del Quartetto Kelemen a Sidney, a Melbourne e a
Canberra.
Ora: è giusto rassegnarsi e aspettare avviliti la notizia del primo
organizzatore di concerti nostrano che si sentirà sexy e astuto
nell’offrire posti per twittanti al proprio pubblico? No, non
credo. Inorridisco all’idea che l’ascolto della musica classica, in
una sala appositamente costruita, debba essere disturbato da un
“fare altro” così invasivo come quello di usare uno smartphone. Per
tre motivi.
Il primo, quello più ovvio, è quello di non fidarsi di una
separazione di settori.
Le sale da concerto sono costruite per stare insieme, seduti
davanti ai musicisti, e non sono stanze d’albergo: quello che si fa
dentro lo sentono e lo vedono tutti e la sensibilità di chiunque
(per non parlare dei soldi che ho pagato per il mio biglietto)
sarebbe bello che fosse rispettata. Il secondo è che la musica
classica, da quando esistono appositi luoghi per ascoltarla, è
stata composta - e lo è tuttora - per essere sentita nel suo
insieme.
Il terzo serio motivo, è per combattere contro l’idea di mandare
tweet durante un concerto: ci si deve opporre perché quella è
un’attività che, in altro modo, stiamo già svolgendo.
In fondo si assiste ad un concerto per goderne insieme alle persone
che si hanno intorno, per vedere le proprie emozioni riflesse nei
loro occhi, per sentire il calore o la freddezza del loro applauso,
per commentare l’esecuzione nell’intervallo. La sala da concerto è
un social network che funziona magnificamente da alcuni secoli,
senza bisogno di un ulteriore upgrade.