Rimbaud sosteneva che dopo i greci la poesia si fosse dissolta in un gioco futile di versi e rime. Il vero poeta è chiamato a “farsi veggente con un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi, deve vivere ogni forma d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, assorbe in sé tutti i veleni per non serbarne che le quintessenze”. Queste mature considerazioni trovano la loro radice in quel genio che era il giovane Rimbaud, un ragazzo timido e fragile dall’aria sognante, dai grandi occhi chiari. Benché fosse molto diverso dai suoi compagni, Rimbaud era riuscito a farsi rispettare aiutandoli durante i compiti in classe. Nonostante le apparenze, dietro questo primo della classe che arrossiva se interpellato inaspettatamente, c’era la madre. Abbandonata dal marito, atterrita all’idea che il figlio seguisse l’esempio dello zio che si era dato al vagabondaggio, Madame Rimbaud era severissima con il figlio, malgrado tutti i successi scolastici.
Ma fu il giovane supplente, il professor Izambard di sei anni più anziano del poeta, a rimanere a tal punto affascinato dalla non comune intelligenza e dalla sua illimitata capacità di apprendimento, da cominciare a trattarlo alla pari.
Arthur si aprì ed iniziò a confidargli i suoi sogni e le sue letture. Ma soprattutto osò fare vedere a quello che gli sembrava una sorte di padre, i suoi straordinari versi.
Quell’insegnamento, isolato dalla sordità e dalla meschinità della provincia, e quella strana amicizia si dimostrarono un conforto insperato.
Izambard prese a prestare libri all’adolescente e questi, successivamente, andò ogni pomeriggio a casa sua per leggere e discutere di poesia.